Marinella Fiume
Ci ho riflettuto su queste elezioni siciliane, seguendone attraverso la stampa gli eventi e, di volta in volta, i miei sentimenti oscillavano dall’ilarità allo sdegno, fino ad approdare al disinganno, che è un sentimento “dolce”, capace di assorbire criticamente il risentimento, un sentimento che solo i vinti sanno nutrire (valga per tutti l’esempio dell’atteggiamento dell’autore del Gattopardo nei confronti del processo risorgimentale).
Ci ho riflettuto quando un mio amico quarantacinquenne mi ha detto disperato di non riuscire a trovare un lavoro dopo aver perso il suo per la chiusura dell’azienda dove ha lavorato un quindicennio; quando un altro ha dovuto lasciare lo studio in cui lavorava perché i clienti si erano diradati; quando Laura, diplomata, mi ha chiesto se sapevo di qualche famiglia che cercava una badante purché nelle ore notturne potesse stare a casa a dormire con i figli; quando una giovane universitaria di lungo corso, sempre alle prese con le tasse da pagare, mi ha chiesto di farmi le pulizie a casa… E potrei continuare ancora se non temessi di tediare il lettore.
Come rimproverare gli elettori se diventano clienti? Che diritto ho io, dall’alto della mia sicurezza economica ottenuta dopo una vita di impiego sicuro, di pontificare contro la piaga antica del Meridione: il clientelismo? E non sarebbe questo odioso, offensivo snobismo?
Come tutti sanno, il clientelismo in politica è una pratica antica per cui personaggi influenti instaurano un sistema di favoritismi e scambi fondato sull’assegnazione arbitraria di benefici o posti di prestigio con chi non avrebbe alcun titolo per godere altrimenti di tali favori. Fenomeno diffuso nell’antica Roma, il clientelismo indicava il rapporto tra chi si trovava in stato di dipendenza da un “patronus”, dal quale riceveva protezione. L’espressione poi è stata usata in riferimento a un’ampia serie di legami di dipendenza che hanno in comune il fatto di essere contratti da persone che dispongono di risorse ineguali, scambiate in transazioni asimmetriche, ma reciprocamente vantaggiose. Le relazioni patrono-cliente si sono insinuate per lunghi periodi nel cuore delle istituzioni favorendo l’accesso allo Stato e la dipendenza dal settore pubblico e promuovendo con ciò la formazione e la conservazione di clientele. Si tratta di una pratica non nuova neanche nella nostra democrazia, che garantisce il reciproco interesse o vantaggio tra chi fornisce favori e chi li ottiene in cambio.
La fine della politica industriale, la concorrenza internazionale, la riduzione del personale nelle ormai non più tanto nuove frontiere tecnologiche, la crisi, insomma, del tradizionale mercato del lavoro e la disoccupazione feroce, specie dalle nostre parti, comporta che anche il momento più cruciale di ogni democrazia, quello del voto per eleggere i propri rappresentanti, sia visto come opportunità per risolvere drammatici problemi personali e familiari di sussistenza: da un lato c’è l’aspirante politico che si piazza in una lista sicura per salire o almeno provarci, dall’altro chi si situa tra i clienti di questo o quell’altro papabile per risolvere i propri problemi di vita. L’accusa di trasformismo, fenomeno non certo recente, diventa un lusso borghese perché quel che conta è annusare il vincitore e passare tra le sue file.
Qui non fa differenza tra Destra Centro o Sinistra. Ma questa non è più politica e il sistema così generalizzato rischia di essere al collasso.
Mi sarò perso qualche passaggio, ma aspetto ancora in questa campagna elettorale di sentir parlare di serie politiche del lavoro in Sicilia, mentre allo stato sento solo vuote formule e luoghi comuni di una terra meravigliosa e mal amministrata, matrigna coi suoi figli che chissà come si farà risorgere…
Né i pentastellati, sempre che ce l’abbiano, potranno attuare un programma di governo, chiusi come sono ad ogni possibilità di dialogo, né la Sinistra alternativa al PD, che non sembra nata da programmi contrapposti ma da una scissione interna per affermare una leadership.
Ho certamente la vista troppo corta, ma non vedo modo al momento di cambiare finché i Siciliani non saranno – ahimè – liberi dal bisogno, che sarà un’espressione di un’estrema semplificazione, ma rende bene l’idea. Chissà, magari quando tutti avremo “sistemato” i nostri figli potremo tornare a dare un voto “libero”, tornare ad infiammarci della politica, farla risorgere dalle ceneri. Consideriamo questo un momento di passaggio, un fermo in un giro di valzer. In quanto a me, io non so dare indicazioni di voto ma andrò a votare e non mi indignerò per chi voterà per il “patronus”. Ma c’è da chiedersi: le promesse saranno poi mantenute? E ancora: potranno mai accontentare la gran massa di disperati senza lavoro? No, neanche votare per il “patronus” è la soluzione.