Saro Faraci
Siamo arrivati alla fine di questo viaggio che è durato una intera settimana. E’ la Settimana Italiana dell’Insegnante, promossa nel nostro Paese da un istituto scolastico di Lecce e da un’associazione, giunta alla IV edizione, ma ancora non ufficializzata come avviene invece in altri Paesi, dove la prima settimana di maggio è quella del Teacher Matters. Ci arriveremo prima o poi anche noi, in Italia, a dare ufficialità a questi “sette giorni” che costituiscono, nel ricordo di chi è stato un bravo docente, una preziosa occasione per riportare la Scuola (ed estensivamente anche l’Università) al centro del dibattito civico, prima ancora che politico del Paese.
Una settimana, da domenica a domenica, in cui dalle colonne di questo quotidiano telematico abbiamo provato a raccontarvi storie di gratitudine, di buon esempio, di carisma, ma anche di grande umanità e di attenzione alla persona. Le trovate tutte qui a questo link. La gratitudine espressa ai docenti attraverso le parole di altri docenti che oggi sono maestri alla scuola primaria come Adriana Grasso, insegnanti alle medie come Anna Alì, Margherita Bottino, Valentina Guglielmino, Peppe Leonardi e Rosa Oliva oppure ancora professori universitari come Salvatore Sciascia e Stefano La Malfa; il ricordo dei prof da parte di mamme a tempo pieno come Grazia Zappulla, di giornaliste come Giuliana Avila Di Stefano, di scrittrici come Clelia Zarba; gli apprezzamenti espressi da imprenditori come Luciano Privitera oppure da manager come Valeria Sciuto; il legame mai interrotto con i prof da parte di studenti come Alberto Vazzano, di neo laureate come Cristina Longo e Danila Pelligra e persino di un sacerdote come don Roberto Strano che ha ricordato suo padre Michele come buon esempio di professore e maestro di vita.
Ognuno di loro, degli intervistati, è diventato quello che è oggi grazie anche al «buon esempio» di bravi docenti. Durante le interviste, non è stata infrequente l’espressione il «mio prof» o la «mia prof» nelle loro parole. “Mio, mia”, un aggettivo possessivo, preceduto dall’articolo. Ma «mio», «mia» quando riferito ai prof in questi casi vuol dire anche affetto, amicizia, gratitudine, riconoscenza.
«Mio» come aggettivo che ha delimitato quello spazio fisico, per l’appunto «mio», che è l’aula nella quale docenti e allievi da sempre crescono insieme. Dove insegnare significa anche e soprattutto educare, specialmente alla Scuola dell’obbligo; dove educare è etimologicamente collegato al verbo latino «educere» e alla sua prossimità con un altro verbo che è «seducere». Ricorda Riccardo Massa nel suo scritto Educazione e Seduzione (2010) «Portare via significa anche rapire, strappare, separare, sedurre. Educere assomiglia molto a seducere, anche nel senso di sviare e portare fuori strada. Ma soprattutto, prima che condurre in un luogo appartato, può significare condurre all’aperto. Il gesto educativo è il gesto di chi porta nella radura».
Bisognerebbe ripartire dai fondamentali per fare della Scuola italiana una «buona Scuola» ancor prima degli interventi, spesso affrettati e talora approssimativi, del nostro legislatore. La Buona Scuola comincia dentro l’aula, dentro quello spazio di quattro mura, talora angusto e non sempre luogo di autentico benessere fisico, in cui però avviene un transfert, un travaso quasi fisico, tra l’amore del docente per la conoscenza e quello stesso amore che, con abiti diversi, si è capaci di suscitare negli allievi. Non è questione di nozioni, di formule, di teorie, di frasi da ricordare a memoria. E’ fondamentalmente un questione di travaso, ma non per riempire gli allievi di nozioni, ma per svuotarli e aiutare loro stesso a riempirsi di nuova conoscenza.
In fondo è questo l’insegnamento dei bravi «prof», di quelli che ricordiamo ancora oggi, che non dimenticheremo mai perchè hanno «lasciato un segno» nella nostra formazione umana e professionale. Un bravo «prof», il «mio» prof come lo chiamiamo ancora affettuosamente, la «mia prof» come la etichetteremo a vita, resterà per sempre indimenticabile non perchè sia stato un comprensivo genitore, un attento psicologo, un amico fidato, un infallibile coach per la vita. Forse anche per alcuni di questi motivi, ma la prima cosa fondamentale è che il «prof» sia stato capace di trasmettere Amore. E per trasmetterlo, l’Amore bisogna avercelo dentro, provarlo intensamente, e darlo incondizionatamente. Per poi saperlo tacere, altrimenti l’incantesimo si rompe.
In questa Settimana dell’Insegnante, in cui ho scrutato sul web come nel resto del Paese l’evento fosse celebrato e ricordato, e in cui man mano ho raccolto le testimonianze di ben diciassette persone contenute in questa inchiesta, ho avuto modo di leggere pure il libro di Massimo Recalcati “L’Ora di lezione”, edito da Einaudi nel 2014. E’ stato un modo per accompagnare il mio compito di cronista e per vivificare il mio attuale mestiere che rimane quello di docente universitario. Un libro impegnativo alla lettura, perchè ricchissimo di sfumature epistemologiche radicate non solo nella Filosofia, ma anche nella Psicologia, nella Pedagogia e nella Letteratura Greca; allo stesso tempo, un libro che, in quella suggestiva e per certi versi forte rappresentazione dell’erotica dell’insegnamento, ricostruisce ad uno ad uno i capisaldi della Buona Scuola. Che, beninteso, è quella che la generazione dei quarantenni e dei cinquantenni di oggi ha conosciuto quando non si chiamava affatto Buona Scuola ma era soltanto e solamente la Scuola. E ciascuno di questi capisaldi richiamati da Recalcati passa inevitabilmente per l'”Ora di lezione”, quei sessanta minuti, oggi un po’ meno di un giro completo di orologio, in cui il «prof» affascina, educe e seduce, catalizza l’attenzione, coinvolge, rende partecipi, modula la voce e la gestualità del corpo e attraverso queste modula a sua volta le emozioni, tiene incollati gli studenti al banco, alla sedia, ma da quel banco e da quella sedia proietta e catapulta i suoi alunni verso il mondo. Non è così che abbiamo conosciuto e sperimentato i «nostri» prof, quelli che non dimenticheremo mai?
Beh, si potrebbe obiettare che da allora ad oggi, molte cose sono cambiate. C’è meno rispetto istituzionale per i prof a Scuola anche perchè c’è meno rispetto dei figli verso i genitori già dentro le famiglie, sempre che le famiglie esistano nel modo monolitico in cui le abbiamo vissute e dove siamo cresciuti. Ci sono molte più distrazioni, a cominciare da smartphone e tablet che ormai sono la “terza mano” dei giovani. O ancora che ci sono poche risorse finanziarie e materiali per far funzionare al meglio la stessa aula che dovrebbe essere anche un luogo di benessere fisico: quante volte ragazzi e docenti si lamentano perchè il proiettore non funziona o la LIM non è connessa? E poi c’è un sovraccarico amministrativo, di attività non strettamente funzionali all’insegnamento, di adempimenti burocratici e ridondanti, di moduli da compilare e finte relazioni da ultimare, che sottraggono energia fisica e mentale ai docenti.
Tutto ciò è vero, ma non possono essere questi elementi contingenti a togliere valore ed importanza alla funzione sociale del «prof», nemmeno se tutte le famiglie si rivoltassero contro i docenti in una sorta di perversa e diffusa alleanza inter-generazionale fra genitori e figli, entrambi vittime del “complesso di Narciso”, in cui ogni persona deve apparire bella, infallibile ed ipercompetitiva anche quando dentro è fragile, insicura e scolasticamente parlando impreparata.
Ripartire dall’aula, dall’ora di lezione. «Dal primo e dall’ultimo banco», sembra dire Giovanni Floris nel suo recentissimo libro Ultimo Banco. Perchè Insegnanti e Studenti possono salvare l’Italia, edito da Solferino. I Libri del Corriere della Sera (2018) in cui ha raccontato storie di Buona Scuola attraverso la testimonianza diretta di incontri e riunioni in cui ha conosciuto una Scuola che non vuole mollare, dove insegnanti “innamorati” trasferiscono il loro amore per la conoscenza a studenti, anche “difficili”, che a loro volta si contaminano fra loro e riescono a trascinare anche quei “genitori-amici-non più genitori” che sono i loro padri e le loro madri. L’Amore, in fondo, è sempre contagioso.
Ripartire dall’Ora di lezione, per usare le parole di Massimo Recalcati. Ricominciare dall’Ultimo Banco, per impiegare quelle pronunciate da Giovanni Floris. Riprendere dall’aula la retta via perché è sempre così che la Scuola è stata, man mano che ha attraversato la Storia segnata anche da forti conflitti inter-generazionali (vedi il ’68 e il ’77), da terribili tensioni intra-generazionali (vedi il bullismo oggi), da rapidissimi mutamenti del contesto economico, sociale e politico.
In una sorta di Neo-Umanesimo della Scuola, è dall’aula che bisogna ripartire, e non solo dalle tecniche e dalle regole di docimologia, dalle sperimentazioni di classe capovolta e dalle nuove metodiche di insegnamento a distanza. Tutte cose importanti, ci mancherebbe, e al passo coi tempi moderni e digitali. Ma che non potranno mai sostituire la presenza in aula di un docente «presente».