Salute mentale in carcere: un suicidio ogni cinque giorni. Le loro storie tra fragilità e mancato supporto psicologico

Salute mentale in carcere: un suicidio ogni cinque giorni. Le loro storie tra fragilità e mancato supporto psicologico

di Katya Maugeri

Nel primo semestre del 2022, si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena 35 persone. A queste si aggiungono altre 3 persone decedute nel mese di luglio, portando a 38 il numero totale dei suicidi avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno.

Un suicidio ogni cinque giorni. Sono i dati che emergono dal rapporto dell’associazione Antigone, “La calda estate delle carceri”, che fa il punto su quanto avvenuto nei primi mesi negli istituti di pena italiani.

«Chiunque viva o lavori in carcere ha la netta percezione che la questione della salute mentale è la principale problematica del carcere contemporaneo. Una questione tanto consistente quanto complessa a cui bisogna dedicare le migliori energie. Tutti devono fare la propria parte. A cominciare dalle aziende sanitarie territoriali che hanno il dovere istituzionale e normativo di garantire la presa in carico dei pazienti detenuti. In molte carceri visitate da Antigone». Spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione.

Il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27.

Solo nel 2010 e nel 2011 tale numero si avvicinava a quello di oggi, rispettivamente con 33 e 34 suicidi. Erano quelli gli anni del grande sovraffollamento penitenziario, i detenuti erano molti di più, e la Corte Europea condannava l’Italia per violazione del divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani e degradanti.

Oggi i detenuti sono assai meno che allora ma carenze e disagi continuano, impattando con più o meno forza nei percorsi delle persone detenute. Ovviamente ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità, ma quando i numeri iniziano a diventare così alti non si può non guardarli con un’ottica di insieme. Come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti.

Vanno certamente poi creati spazi adeguati e rispettosi della dignità dell’uomo per le persone con patologia psichica, «dagli anni ‘90 – continua Michele Miravalle – ci arriva l’esperienza dei reparti a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti in trattamento, potrebbe essere un esempio a cui ispirarsi».

In carcere ci si toglie la vita ben sedici volte in più rispetto alla società esterna

Con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, l’Italia è in generale considerato un paese con un tasso di suicidi basso, uno tra i più bassi a livello europeo. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca invece al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. A fine 2021, tale tasso era pari a 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Mettendo quindi in relazione il dato della popolazione detenuta con quello della popolazione libera vediamo l’enorme differenza tra i due fenomeni: in carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna.

Delle 38 persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2022, 18 erano di origine straniera. Due le donne, una deceduta nel carcere di Messina e l’altra a pochi chilometri di distanza nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Guardando alle età, la fascia più rappresentativa è quella più giovane con 14 persone decedute di età compresa tra i venti e i trent’anni. I più giovani in assoluto erano due ragazzi di 21 anni, mentre il più anziano un uomo di 70. Tra le persone che si sono tolte la vita, diverse si trovavano in carcere solo da poche ore. Altre erano invece destinate a lasciarlo a breve, essendo vicine al fine pena o trovandosi in procinto di uscire in misura alternativa.

Assenza cronica di supporto psichiatrico e psicologico: il 13% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave.

Nell’ambito della questione delle condizioni di salute della popolazione detenuta, quello della salute mentale rimane il capitolo più significativo nei numeri e più problematico nelle risposte date dalle aziende sanitarie e dall’amministrazione penitenziaria.

I numeri anzitutto continuano a fotografare il carcere come “psico-patogeno” dove il disagio psichico, diagnosticato e non, è diffuso, capillare e omogeneo sul territorio nazionale.

I “disturbi psichici” rappresentano la metà delle patologie rilevate nella popolazione detenuta. Per avere un’idea della consistenza di questo dato, basti pensare che gli altri due gruppi di patologie più diagnosticate in carcere, che sono quelle del sistema cardiocircolatorio e delle malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie, sono entrambi al 15% del totale delle patologie rilevate.

Dunque il disturbo psichico è di gran lunga la prima categoria diagnostica nelle carceri italiane. Antigone, raccogliendo i dati direttamente dagli operatori sanitari delle singole carceri visitate nell’ultimo anno, ha rilevato che il 13% del totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significa oltre 7 mila persone.

Solo per una piccola parte, dalla diagnosi è seguita una misura di tipo giudiziario. Proprio sulla questione delle diagnosi psichiatriche bisogna provare a fare chiarezza, soprattutto in mancanza di una rilevazione diagnostica accurata sul piano nazionale che rende molto difficile ogni analisi e, soprattutto, la pianificazione di risposte efficaci. Il dato sulle diagnosi psichiatriche certificate tra la popolazione detenuta generale è infatti di difficile rilevazione.

«L’assenza degli operatori sanitari è drammatica – spiega Michele Miravalle – anche per questo troppo spesso si affrontano i casi più problematici con strumenti quali l’isolamento o la contenzione farmacologica con massiccio uso di psicofarmaci che non hanno nessuna funzione di cura, ma di mero controllo» Un uso fuori luogo anche per persone senza una diagnosi psichiatrica certificata. Secondo l’osservazione di Antigone, il 28% delle persone detenute nelle carceri osservate assume stabilizzatori dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 37,5% sedativi o ipnotici.

Nelle tragiche storie di detenuti suicidi emerge un denominatore comune drammatico: il disturbo psichico

Su un giovane ragazzo di 25 anni morto all’Ucciardone era stata effettuata, proprio per presunto rischio suicidario, una perizia psichiatrica che non aveva però portato a nulla. A un uomo di 54 anni in custodia cautelare a Terni era stata da poco rigettata la richiesta di scarcerazione, presentata a causa di una forte depressione. Un uomo di 36 anni, detenuto da poco nel carcere di Foggia e a solo due mesi dal fine pena, pare soffrisse di problematiche psichiatriche.

L’uomo di 70 anni si trovava invece da poche ore nel carcere di Genova in stato di fermo come detenuto con disagio psichico. Era stato arrestato in stato di shock e aveva già tentato di togliersi la vita pochi mesi prima. Oltre a queste storie, se ne aggiungono altre di particolare gravità, riguardanti persone con problematiche psichiatriche note e diagnostiche.

La storia di G.T. che in carcere non doveva starci

G.T., un giovane ragazzo di 21 anni che secondo il Tribunale di Milano in carcere non doveva stare. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza) in quanto una perizia psichiatrica dimostrava la sua incompatibilità con il regime carcerario, a causa di un disturbo borderline della personalità.

Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, G. T. si è tolto la vita.

Nelle settimane precedenti ci aveva già provato altre due volte. Pochi giorni prima, il 26 maggio, in una cella dello stesso reparto di San Vittore, si era suicidato un altro giovane ragazzo. Si chiamava Abou El Maati, aveva 24 anni, era un cittadino italiano di origine egiziana.

G.P. suicida a due giorni dall’arrivo in carcere

Altra storia tragica è quella di G.P., un uomo di 30 anni con problemi psichiatrici toltosi la vita il 28 giugno nel carcere di Bari, dove si trovava da appena due giorni. Dopo il suo arresto era stato condotto nella ex sezione femminile dell’istituto, inagibile da anni e adibita a inizio pandemia a luogo per svolgere i periodi di isolamento. Da tempo la sezione era però utilizzata di fatto come reparto per detenuti con patologie psichiatriche, nonostante non fosse in alcun modo adatta a tale funzione per carenze di spazi e di personale.

Suicidarsi al termine dell’ora d’aria

È la storia di una donna, di cui il nome ad oggi è però sconosciuto. Si sa solo che era di origine romena, aveva 36 anni ed era detenuta da poco tempo all’interno dell’Articolazione per la tutela della salute mentale (ATSM) del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Nel pomeriggio del 10 aprile è stata ritrovata senza vita nel cortile dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria.

Rems e liste d’attesa

Le Rems, le residenze ad esclusiva gestione sanitaria destinate a ricoverare i pazienti psichiatrici autori di reato in misura di sicurezza detentiva, sono 33 (contando ancora quella di Mondragone di prossima chiusura). Il numero di ospiti con posizione giuridica “provvisoria” è altissima, 243 persone pari al 47% del totale.

Per il ricovero in Rems esiste una “lista d’attesa”, unico virtuoso caso tra i luoghi di privazione libertà in cui se non c’è spazio si rimanda la detenzione. La lista d’attesa è di 605 persone. Tuttavia, 42 tra queste attendono il loro turno in carcere, detenuti con dubbio titolo.

Dal lavoro costante di Antigone emergono numeri e criticità che raccontano di un malessere generale del sistema penitenziario italiano. La salute mentale non può restare in ombra dentro una cella fredda. Tutti devono fare la propria parte.

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