Salvare l’università

Salvare l’università

di Antonio Di Grado

Una bomba, la mattina di venerdì. Una notizia appresa per caso girovagando nel web dopo il caffè, e subito un incrociarsi di telefonate incredule e sgomente tra colleghi: “Hai letto? È un terremoto! E ora che succederà?”. Cominciano a venir fuori i primi nomi, e magari del collega della porta accanto… E una vecchia storia di faide e ritorsioni, licenziamenti e riassunzioni, reciproche denunzie, che ebbe inizio qualche rettorato fa, e di cui poco (e forse colpevolmente) ci si era occupati, noi tanti impegnati piuttosto dal nostro bel lavoro, dalla ricerca, dal rapporto intenso e prezioso con gli studenti.

La Magistratura farà il suo corso com’è giusto, e punirà severamente gli abusi; ma guai se questo penoso discredito dilagasse anche sul lavoro onesto e competente di tanti, di tantissimi che continuano a credere in una università tutt’altro che “bandita” e a servirla con passione.

E tuttavia, al di là degli intrighi e dei brogli di questo o quello, il nodo da sciogliere per evitarli o limitarli in futuro è quello del tortuoso e talvolta perverso meccanismo concorsuale. Ed è un nodo che i governi di qualunque colore hanno semmai aggrovigliato con pletorici e fallimentari marchingegni come l’ANVUR. Ebbene: le tante storture o magagne di quel sistema di promozioni e reclutamenti riguardano l’università italiana tutta, e non solo Catania, e quanto meno da Francesco De Sanctis a oggi, e implicano il superamento di un bivio al cospetto del quale non si è mai scelto quale via intraprendere: e cioè quello tra merito e cooptazione, tra l’aspirazione dei maestri a perpetuare le proprie ricerche e idee in una “scuola” e la oggettiva quantificazione dei meriti dei candidati. Non mi riferisco, è ovvio, ai tanti arbitrari favoritismi o vergognosi nepotismi: per quelli c’è la galera, o altre forme di risarcimento e di espiazione.

E però mi chiedo: come si fa a quantificare il merito? Non certo coi parametri algebrici suggeriti dai ministri e dai loro burocrati: un breve saggio di 10-15 paginette può infatti valere ben più, può essere più geniale e innovativo, d’una catasta di volumi stiracchiati e compilativi. Ai posteri l’ardua sentenza, se saranno in grado di gestire nei limiti della legalità l’inevitabile quoziente di soggettività, di libertà, implicito in ogni giudizio, in ogni valutazione.

Confido nella giustizia, e spero in una radicale riforma, per le generazioni che verranno: alle precedenti si è fatto tanto male, e non solo a causa di deprecabilissime beghe accademiche ma di governi che non hanno più investito sull’istruzione, sbarrando le porte degli atenei a troppi giovani meritevoli e regalandoci questa università così anziana e rissosa, questo asettico e acritico creditificio. Se penso alle appassionate discussioni, al confronto assiduo tra me e i miei giovani colleghi, negli anni del nostro apprendistato, da assistenti “precari” ma pieni di entusiasmo! Altri tempi: ora si parla solo di tabelle, crediti, algoritmi, finanziamenti, governance, indecifrabili acronimi e varia computisteria accademica… E se penso a quanti meravigliosi ragazzi e ragazze mi son visto passare davanti senza che si aprisse uno sbocco, una possibilità di avvicendare nuovi e agguerriti studiosi a colleghi logorati dall’età! Quello sì è un peccato che nessun ministro o rettore espierà.

Fra quattro mesi lascerò questa università, da pensionato felice dei risultati ottenuti e dei valori trasmessi, ma amareggiato dai tanti problemi non risolti e da queste ultime, penose vicende. Ma continuerò ad amarla, questa bistrattata università, e a scrutarne – nei suoi laboriosi operatori, nei suoi meravigliosi studenti – segni e promesse di resurrezione.

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