di Katya Maugeri
«Sono un figlio ripudiato di SanPa, madre amorosa e crudele e la ragione del ripudio sta in questo libro. Per questo, a mo’ d’antefatto e non di prefazione, voglio raccontarne la storia. Una storia insita nelle pagine a seguire come un frutto nel seme, una storia maturata, senza che me ne rendessi conto, all’ombra delle parole con cui ne raccontavo un’altra».
L’introduzione di Fabio Cantelli Anibaldi al suo “SanPa, madre amorosa e crudele” pubblicato da Giunti editore è intensa, sublime e arriva dritta al cuore.
Il libro, che uscì la prima volta nel 1996, torna in libreria dopo il grande successo della docu serie Netflix ‘SanPa’ di cui Cantelli Anibaldi è tra i maggiori protagonisti.
Attuale vicepresidente del Gruppo Abele di Don Luigi Ciotti, Cantelli Anibaldi è lo storico portavoce della comunità che ripercorre la sua storia di figlio ripudiato della”madre amorosa e crudele” creata da Vincenzo Muccioli in un libro scomparso per tantissimo tempo fino quando uno dei creatori della serie Netflix, ritrovandone una copia, ha deciso di dare nuovamente voce a quella realtà.
«Volevo spiegare cosa accadeva davvero lì, a SanPa, perché non ne potevo più delle descrizioni che mi toccava leggere ogni mattina sui giornali in quanto capo ufficio stampa della comunità.
M’indignavano quelle che dipingevano SanPa come una riedizione di Auschwitz, ma pure m’irritavano, ormai, quelle che la celebravano come un posto unico al mondo per calore e umanità, guidato da una persona altrettanto unica: Vincenzo Muccioli, taumaturgo, santo e campione di bontà. Volevo spiegare al mondo che SanPa non c’entrava nulla con quelle oscene o ridicole caricature, e pensavo che pochi meglio di me, avendoci vissuto dieci anni, potevano farlo».
Il libro racconta, con una grande profondità d’introspezione, il microcosmo doloroso e tormentato di San Patrignano in un momento in cui si riapre il dibattito su droghe e cultura.
Com’è è cambiata la percezione pubblica nei confronti della tossicodipendenza?
«È un tema ormai sterilizzato, imbellettato, dunque rimosso. Oggi la droga è inclusa a pieno titolo nel “mercato”, sistema basato su blandi ma non meno insidiosi meccanismi di dipendenza. Cos’è il cosiddetto “consumatore” se non una pedina facilmente manovrabile, un ricettore di desideri indotti? Uno che di fronte al nuovo “prodotto” freme come il tossico in astinenza alla visione del pusher? Drogarsi oggi è un atto direi normale, del tutto privo di quell’epica che aveva quando era un’esperienza di rottura. Una pratica accessibile, alla portati di tutti e di tutte le tasche.
Oggi, con l’eroina acquistabile con pochi euro, un tossicomane non deve più rubare, rapinare, prostituirsi, esperienze che hanno significato per la mia generazione carcere, malattia e morte. Che sia un progresso dubito, perché in questo scenario la figura del tossico sparisce, diventa invisibile. Non sono sparite però le motivazioni che lo portano agli stupefacenti. Motivazioni che hanno molto da dire sulla natura umana e sui suoi bisogni. Sulla questione droga è stato steso un velo di prudente ipocrisia».
Si è discusso molto sul metodo usato in comunità alimentando pareri discordanti in merito, «penso sia inappropriato parlare di “metodo punitivo”. Le stesse misure di contenzione applicate a San Patrignano erano una “extrema ratio”, non un metodo. Un’eccezione, non una prassi consolidata. E anche la parola “punizione” è fuori luogo. Posso parlare di San Patrignano ma credo che ciò valesse anche per le altre comunità. Non si trattava di punire ma di far valere un principio di responsabilità: se fai questo devi risponderne, se causi un danno. Ovvero, a un determinato atto o comportamento corrispondono determinate conseguenze. Anche su questo bisogna essere onesti.
Il tossicodipendente è un irresponsabile perché la droga fa provare un senso di potenza e autonomia che esclude gli altri dall’orizzonte esistenziale. Per il tossico l’altro non esiste se non in forma di complice o di ostacolo. E se il complice diventa ostacolo non ci si fa problemi a raggirarlo o tradirlo. Le droghe vengono sempre e comunque prima.
La comunità cerca d’insegnare la responsabilità, cioè la coscienza che le tue azioni hanno sempre una ricaduta sulla vita degli altri, nel bene o nel male. Non è cosa da poco, direi, nella crescita di una persona. Ciò detto, è ovvio che norme e divieti da soli non portano a nessun cambiamento. Il cambiamento comincia quando ti comporti in un certo modo a prescindere dalla norma, perché credi tu per primo che sia giusto comportarti così.
Quando diventi appunto una persona responsabile, non solo obbediente. Per questo penso che parlare di metodo punitivo sia fuori luogo, retaggio di certa sociologia di sinistra che, quando parlava di San Patrignano, tirava sempre in ballo “Sorvegliare e punire” di Foucault o le “istituzioni totali” di Goffman, come se la comunità fosse un carcere o un manicomio.
Poi è indubbiamente vero che a San Patrignano il “patto terapeutico” era molto più impegnativo. Ma era, quantomeno, esplicito, come si evince anche dal documentario di Netflix. Vincenzo Muccioli avvisava l’aspirante ospite: se entri sappi che resti e che se te ne vorrai andare ti tratterrò anche contro la tua volontà».

Secondo la sua esperienza e la sua preziosa testimonianza, come definisce la tossicodipendenza. Quali continuano ad essere le cause che portano i giovani all’abuso di sostanze: l’ambiente sociale o qualcosa di più intimo e profondo?
«Questa è la domanda cruciale che, guarda caso, viene elusa o anticipata da risposte inadeguate o consolatorie. Mi riferisco alla lettura in chiave socio-psicologica con cui da cinquant’anni si continua a interpretare la droga di massa, tirando in ballo cause non infondate ma contingenti come il trauma famigliare o il disagio sociale. Lo dico senza mezzi termini: dietro il ricorso alla droga c’è la fame d’infinito con la quale ogni essere umano viene al mondo, una fame che ha un’origine secondo me embrionale, nei nove mesi passati nel grembo materno. Parentesi di vita incosciente ma di certo senziente che nell’essere umano venuto al mondo germoglierà come anelito di felicità. È quella che i poeti romantici chiamavano sehnsucht, lancinante nostalgia per l’Altro e per l’Oltre. Franco Fornari, grande psicanalista, scrisse che ogni neonato è un potenziale tossicomane.
Sì, perché la domanda cruciale è: come la società si prende cura del proprio anelito di felicità? Per secoli e millenni la risposta è venuta dalle religioni: «Avete ragione, questa terra è una valle di lacrime, un luogo di pena, ma confidate perché nell’Aldilà vi attende il Regno di Dio o le 72 vergini della Janna musulmana. Anche le ideologie si sono prese cura della fame d’assoluto additando agli uomini in lotta società perfette rivelatesi perlopiù regimi totalitari, luoghi di pena e vessazione.
Ma oggi non siamo messi meglio: nel mondo globalizzato la religione è quella del “mercato”, ipnosi di massa che inchioda a un presente senza passato e né futuro, ignorante della sua provenienza e incurante del proprio destino. Nel mercato tutto è merce immediatamente disponibile e fruibile senza escludere la droga, che immagino i corrieri – i “cavalli”, nel nostro gergo di tossici d’antan – portino oggi direttamente a casa come la pizza o il sushi. Desolante banalizzazione di un’esperienza che per millenni ha avuti legami col sacro, col trascendente. Il “ciceone”, la bevanda che nella Grecia antica l’iniziato prendeva a digiuno per accedere ai “misteri” di Eleusi, conteneva quasi certamente elementi naturali allucinogeni».
Quale potrebbe essere il percorso comunitario ideale?
«Quello che, educandoti alla responsabilità, ti consente di scoprire chi sei senza proporti identità “virtuose” che reggono finché sei dentro ma crollano a pezzi appena esci. Le droghe non sono “sostanze” – come le chiamano gli “esperti” del settore – ma “mondi” che abiti e nei quali ti senti a casa. Lo erano ai miei tempi, ma credo lo siano, sia pure in modo meno coinvolgente, anche in questo. Liberarsi dalla droga significa dunque costruire mondi alternativi dove la fame d’infinito si nutra di ricerca e passione. Liberarsi dalla droga non significa diventare “sereni” e pacificati, ma imparare a convivere con la nostra costitutiva inquietudine di “assetati d’infinito”, facendo dell’inquietudine la nostra più fidata guida e compagna di viaggio. Il percorso comunitario ideale è quello che t’immette su questa strada».