Siamo parte di Cesare


Salvo Reitano

La luce del nuovo mattino s’annuncia oltre le tapparelle appena socchiuse. Filtra con grazia colorando la stanza. L’orologio biologico che scandisce gli attimi della vita suggerisce che saranno più o meno le sette.
Riemergo dal dormiveglia e allungo la mano verso il comodino alla ricerca del telecomando. Abbasso il volume per non disturbare i miei. Le dita vagabondano sui tasti e l’udito si colma di accenti inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, russi, mediorientali, cinesi e africani. Grazie alla parabola raggiungono casa dai paralleli più lontani. Mi fermo ad ascoltare le voci italiane dei notiziari. Ai tanti amici e lettori che chiedono un intervento sulle elezioni del 4 marzo ho sempre risposto che mi sarei astenuto dal farlo. Mantengo la promessa. Del resto le piazze reali e quelle virtuali, i bar e le sale da barbiere, le tv e i giornali, internet e i social pullulano di scienziati della politica e il rischio che si corre è quello di fare brutta figura. Ma di noi italiani, si, voglio parlare. Del come dovremmo essere e invece, sempre più spesso, non siamo. Alla fine del discorso ognuno si farà l’idea che crede e mi darà ragione o torto come è giusto che sia.
Dallo schermo a colori emerge Cesare che fornisce notizie di sé. Ecco le grane, le fazioni, i dissensi, gli intrighi, il lento procedere di un Paese, il nostro, dove ogni corso politico è accidentato. Si va per tentativi. Cesare spende e spande e qualche volta ruba, è così poco credibile  che diventa arduo affidargli  la bisaccia della speranza. Cesare, voglio dire lo Stato, col suo pantheon di facce poco accattivanti, non è fatto per piacere. Quel che manda a dire ai cittadini, che sono appena andati alle urne, non è mai una notizia gagliarda da fondarci la gioia speranzosa di un futuro appena accettabile. Tutto si confonde e tutto si combina a un tanto per cento. La televisione dipana la storia del potere e diventa inevitabile che io mi chieda: davvero a questo Cesare devo rendere il tributo. E davvero mi corre l’obbligo di farlo bene, se pure così poco mi fido della sua tanto osannata “virtù”?
Abbasso il volume della fino a non sentire più la voce del conduttore e chiedo consiglio al repertorio delle verità: cosa mi dice il buon Dio di primo mattino? Insiste a spendere parole in favore di Cesare anche quando questo Cesare dimostri di essere un cialtrone? Il Vangelo è chiaro. È stato detto e scritto. Ora tocca a me capire al meglio. Ci ragiono su mentre dallo schermo filtrano immagini di leader e bandiere. Certo, io ho l’obbligo di rendere a Cesare quel che mi è prescritto ma nei termini che proprio il Vangelo mi suggerisce. Per intenderci: se Cesare sbaglia, e spesso sbaglia, il mio tributo sarà emendarlo. Se Cesare alza ingiustamente la voce, io gli dovrò la replica sulle ragioni del bene e dell’autorità come servizio. Io sono chiamato a guardare criticamente a Cesare, ma con occhio fraterno e responsabile: chiunque operi nello Stato e anche pensi diversamente da me, perfino mi contraddica, deve avere il contributo  di quanto credo nell’interesse suo e del bene di tutti. Non basta tributare a Cesare una critica e, dunque, un rifiuto. Anzi, il rifiuto è proibito: con Cesare si deve discutere e può perfino diventare giusto affrontarlo e combatterlo secondo equità perché ritrovi la strada maestra.
Squilla il telefono. Un amico di vecchia data vuole farmi gli auguri per il mio compleanno. Ci diciamo che è bello ritrovarci vivi davanti a un nuovo corso del sole. Parliamo dei figli e di quanto ci accora e ravviva. Gli confido: ”Ero qui che pensavo a Cesare. Lo sento trasecolare: “A Cesare chi? Non abbiamo amici che portano questo nome”. Mi viene da ridere, perché a nessuno può venire in mente che uno cominci il giorno del suo compleanno a domandarsi se è giusto “rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Rispondo: “Sai, il Cesare quello del Vangelo”. E lui dall’altra parte del telefono, non lo vedo ma lo avverto, storce il naso. Cesare al mio amico non è mai piaciuto, troppo diverso dal nostro intendere la vita. Certo sarebbe bello uno Stato saggio, premuroso, onesto, forte nell’esercizio del bene, sicuro nel voler crescere una società mutevole e ribelle. Il mio amico tace e io sento l’obbligo di precisare: “Forse non ci basta pagare le tasse e andare a votare. Ho la convinzione che quella frase del Vangelo ci chieda di più. E ti dico anche cosa: in qualche modo lo Stato siamo noi e, dunque, risultiamo parte di Cesare. Essendoci la sovranità popolare, possiamo perfino considerarci Cesare in persona”.
“E allora?”, chiede lui che ha capito dove voglio andare parare. “Allora, nel limite del possibile, ci spetta di supplire con il meglio delle nostre azioni quotidiane a quel peggio che le altre componenti di Cesare mettono in circolo. Dobbiamo ricucire la Patria dove abbiamo la ventura di esistere. E farlo con amore perché mentre dai a Cesare, tu rendi anche a Dio quanto gli è dovuto”.
Il mio amico dice che sull’argomento c’è molto da ragionare, ma nella buona sostanza è d’accordo con me. E lo credo bene: non l’ho mai visto fare solo per se stesso, ma sempre anche per gli altri: nel lavoro, in famiglia, con gli amici, con il prossimo sconosciuto, perché i giorni di tutti quelli che incrocia  lungo il cammino siano più abitabili e contengano i raggi luminosi di una nuova speranza.
Ringrazio per gli auguri. Ci salutiamo festosi. Spengo la tv e corro in cucina a fare un caffè. Il sole è già alto. Riprendo a navigare il corso delle ore a venire.

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