Sicilia cannoneggiata

 | Salvo Reitano |

Mentre attraversiamo sgocciolanti, dopo aver parcheggiato l’auto, la stessa stradina che porta verso casa con i lividi del temporale notturno e ancora scossa da solenni tuonate, un signore mai visto prima passa dal saluto appena accennato col capo alla dichiarazione confidenziale: “Caro amico, stanotte credevo che finalmente avessero fatto la rivoluzione. Ma ha sentito che artiglieria pesante nel cielo scuro? Che cadenza di colpi. Un rimbombo di esplosioni. Boom, boom, pataboom!!! Da far paura. A un certo punto ho detto alla mia consorte: Lina, questi per me non sono tuoni, per me sono cannonate. Bombardano. Si sono schierati. Siamo alla resa dei conti dopo le elezioni. Senti come trema ogni cosa? Ascoltami, abbassa le tapparelle, tieni spenta la luce e andiamo a letto. Domattina all’alba sapremo”.
Sbarco all’ingresso di casa senza aver fatto un solo commento, né con le parole, né con la faccia. Sono riuscito persino ad evitare quel sorriso di circostanza che ti scappa, tra zigomi e labbra, quando ti sei fatto beccare in contropiede dalle cavolate di uno.
Quando chiudo la porta e sono già dentro provo un sollievo frizzante al vino novello. Ho trovato il discorso dello sconosciuto parecchio volgare, mi sento schizzato da quel “finalmente hanno fatto la rivoluzione”, vorrei darmi una ripulita.
Il fatto è, sarà l’età del navigante di lungo corso, che non riesco più a spartire la pochezza dei troppi, il parlare per dire nulla, le interpretazioni grette sul nostro vivere e ciò che più ci riguarda.
Il temporale era forte? Allora sparavano. E chi sparava? Ma gli altri, si capisce. E quali altri? Ah un qualcuno. Basta che finisse in fretta e la sera successiva con la Lina si andava tranquilli a rintanarsi in un cinema e all’uscita una bella pizza.
Camminando verso il soggiorno insisto a mormorare indispettito e così per non farmi sentire alzo il volume del silenzio. Per non confondermi. Per trovare il bandolo di un dire strampalato.
Per quel tipo della stradina, cosa sarebbe cambiato se davvero quei lampi e quei tuoni fossero state vampate di cannoni e bordate di artiglieria messi in posizione, siciliani da una parte e altri siciliani sul versante opposto di tiro?
E che cosa si sarebbe aspettato da una notte di tempesta nell’Isola cannoneggiata, presa, indifesa, insanguinata, messa al supplizio da fazioni che talebaneggiano e lui a letto con la Lina?
Si annebbia la mente, anche perché lo so bene: quel tipo non si sarebbe aspettato niente, solamente che la finissero per continuare il rollio personale all’ancora nella banalità, un mare grigiastro senza alcuno spunto di trasparenza.
Il corridoio di casa sembra non finire. Sono talmente indignato che i pensieri vanno più veloce dei passi. Per chi avrà votato il babbeo incontrato lungo la stradina? Che senso può avere la sua partecipazione civile; fosse rossa, bianca, nera, del centrodestra, del centrosinistra o magari agli estremi me ne sbatto in senso assoluto.
Quale società diversa, negoziata con intima sofferenza e accettabile perché sottoscritta, attraverso la ricerca del meglio individuabile; che tipo di società si potrà mai fare con uno che nottetempo ha preso i tuoni per bordate d’insorti e non ha dato un segno di sé, né una preghiera, né un’imprecazione, neanche uno spasimo da ulcera perché la Sicilia intera ammattisce?
Seguissi l’impulso contadino che m’insorge come una tromba d’aria, tornerei indietro, rifarei la strada e cercherei quello là, l’uditore delle rivoluzioni  sotto casa sua, gli griderei da un marciapiede all’altro il repertorio che si urla agli automobilisti furbetti che sfrecciano nelle corsie d’emergenza nelle code dei ponti festivi. “Ehi tu, consorte di Lina…”. E mi fermo qui perché sono frasi irripetibili.
Provo un freddo interiore. Quanti sono quelli che ci contornano in condizione ancora umana, disponibili alle vibrazioni del cogito sul male siciliano ergo sum? E se fossimo solo pochi ultimi a prendercela calda, immersi nella stagnazione dei furbetti di turno?
Il guardiano del parcheggio nei pressi del Castello Ursino, ieri, teorizzava: “Sono gli esperimenti con le bombe atomiche a stravolgere il tempo e a mutare le stagioni. Garantito”. Il collega col cappellino rossazzurro rincarava: “Sono i satelliti in orbita e gli astronauti a guastare la corteccia dell’atmosfera, ecco perché quando piove è sempre un susseguirsi di nubifragi e danni. Sicurissimo”.
Emettevano diagnosi a cappella, pensando totalmente ad altro, come un registratore che replica se stesso, i piedi già sulla strada di casa loro, l’unico rifugio che va comunque custodito da tuoni, cannonate, atomiche e satelliti.
A nessuno di questi viene il sospetto che remi in barca, cinismo di giornata e frasi preconfezionate non ci salveranno dall’abiezione.
E allora, amici, o mutiamo in meglio, o volge in peggio tutto. La sola e unica rivoluzione siamo noi. I tanti io messi insieme. Con un prima e con un poi. Il presente che si fa domani. Il domani che si fa futuro. Inutile continuare a sperare che l’atto rivoluzionario, per deviare lo sfiancato corso delle cose, lo facciano i tuoni venuti fuori da una corteccia cosmica alterata da detonazione atomica. Vorrei urlare: vieni giù da letto, Lina, dai retta a me e dillo pure a quel babbeo del tuo marito di venire giù.
Guadagno finalmente il soggiorno. Guardo piovere dai vetri con tanta confusione in testa. Fortuna che c’è un Nerello Mascalese del 2013 gia sturato e a temperatura. Lo verso nel bicchiere e sorseggio piano. Ho l’improvvisa sensazione di trovarmi sull’Arca, nel diluvio siciliano post elezioni. Il cielo ha smesso di tuonare. Era ora.

 

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