Passeggiata al Gran Camposanto di Messina


 
 
 
 
Anna  Di  Leo
Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.
 L. Master
 

Domenica a Messina. Primavera inoltrata e cielo terso, e una brezza leggera, stamattina, che muove appena le chiome degli alberi, e i miei capelli.

Oggi abbiamo una meta speciale”, dico al mio accompagnatore, “il Gran Camposanto. Tu l’hai mai visto?”. “Mai”, risponde perplesso, così lo rassicuro raccontandogli che in passato ho visitato importanti cimiteri storici, in Italia e all’estero, e che le visite sono sempre state piacevoli e serene, e in più di un’occasione ho fatto singolari incontri e interessanti scoperte.

Così, ad esempio, al Père Lachaise a Parigi, è stato emozionante fermarsi davanti al severo e lucidissimo marmo nero che accoglie il corpo del minuto e sofferente Marcel Proust, alla semplice lapide che ricorda il nostro grande e tormentato Amedeo Modigliani, alla tomba dell’affascinante Frédérick Chopin, infiammata, sotto il sole di agosto, da un mazzo di freschissime rose rosse. E infine davanti alla spettacolare arca funebre del grande artista Théodore Géricault, sulla quale lui sta disteso in una posa un po’ etrusca –“Te lo ricordi il Sarcofago degli Sposi ?”– ritratto con in mano gli “arnesi del mestiere”, tavolozza e pennelli, mentre sul basamento spicca, in bassorilievo, la riproduzione della sua opera più famosa.

Il Cimitero Monumentale di Messina, magistrale progetto dell’ingegnere Leone Savoja, è uno dei tre Cimiteri Monumentali italiani e fu inaugurato il 6 aprile del 1872.

Arrivati alla meta della nostra passeggiata domenicale attraversiamo il grande cancello e costeggiando, sulla destra, il bellissimo parterre verde andiamo verso la parte più interessante del cimitero, in cui si trovano le tombe più antiche, arricchite da pregevoli opere scultoree. Mentre camminiamo, tra il verde dei cipressi e dei salici, in questo che Renè Bazin definì “Le Jardin Funebre”, osserviamo il ritratto scultoreo di un signore di fine ‘800 che veste un paltò ben tagliato su cui ha poggiato, con noncurante eleganza, un collo di pelliccia, e poi, sotto, un panciotto da cui emerge lo sbuffo di una cravatta a fiocco. Grandi baffi, curatissima pettinatura, sguardo distaccato e sereno.

Il silenzio è rotto soltanto dal lieve scricchiolio della ghiaia sotto i nostri piedi mentre, salendo il vialetto, andiamo incontro al ritratto marmoreo di una signora in età il cui busto è chiuso in un corsetto dai molteplici bottoncini; una ruche di pizzo ne mitiga la severità mentre un grande cammeo appuntato sul petto parla, ma con signorile discrezione, di un’agiatezza più che solida. Ed ecco una sepoltura semplice, solo una lapide, ma bella nella sua essenzialità e commovente per quello che ricorda “Qui giace l’ultimo camiciotto”: così erano chiamati i giovani messinesi, che indossando un “camiciotto” si batterono nel 1848 contro le truppe borboniche, e quella semplice tomba custodisce le spoglie di uno di loro. “C’è la Storia qui”, sussurra il mio accompagnatore e infatti, poco più in alto, in divisa d’ordinanza e spada al fianco si erge maestoso il colonnello Vollaro che “militò in Crimea e il 12 gennaio 1848 attaccò ardimentoso i saccomanni borbonici”.

Poi, accanto alla Storia con la “s” maiuscola ce n’è un’altra, più semplice, cittadina, domestica vorrei dire, che però è grande per chi l’ha vissuta e per chi, poi, l’ha voluta ricordare anche su una lapide. Così il “barbiero e cerusico” Antonino Cicala è ritratto, in altorilievo, nella sua bottega, intento a servire un cliente mentre, nella scritta dedicatoria, la moglie e i figli ne ricordano l’animo probo e attento alle necessità dei poveri. E infatti se guardate bene un povero storpio è raffigurato proprio là, davanti la porta della “barberia”, la mano tesa a ricevere una provvida elemosina. E l’eccellente criminologo? Lui sta in piedi, ritratto a grandezza naturale, alto, severo, ammantato nella sontuosa toga. Ai suoi piedi numerosi  grandi codici, a ricordare, forse, non solo il suo vasto sapere giuridico ma anche il peso gravoso delle sue decisioni.

E’ invece leggero, capolavoro del Maestro Scultore Giovanni Scarfì, l’abito che veste Peppino, piccolino di forse due anni. Sta seduto su una grande roccia, aspra, come aspro dev’esser stato il dolore dei genitori che ne fecero realizzare il monumentino: ha calzine ricamate e scarpette allacciate con un fiocco. Più in là ecco la dolce Giacomina,

due anni appena, con un meraviglioso abito da bambola, tutto ruches e merletti; e come non ricambiare lo sguardo malinconico del piccolo Francesco che ci guarda salire lungo il vialetto dall’alto del suo monumento, un bimbo di famiglia  benestante, come dice il suo elegante abito completo di mantellina e fiocco e interamente bordato da un prezioso pizzo a tombolo.

Quanti bambini… Ancora nella seconda metà dell’Ottocento l’aspettativa di vita era molto bassa, soprattutto tra i più piccoli, e 1 su 5 moriva entro il primo anno di vita; poi nel 1854 sulla città si abbattè il colera, 10.000 vittime, e tra il 1918 e il 1920 la pandemia di “spagnola”. La tragica notte del 28 dicembre 1908, poi, si portò via più di 70.000 vite. Ecco, un conto è leggerli sulla pagina di un libro, questi numeri, e un altro è vedere intere cappelle in cui le lapidi portano tutte, tutte, una identica data: famiglie intere, grandi e piccini, adolescenti e vecchi. Ho letto i drammatici resoconti giornalistici dell’epoca, ho visto le spaventose fotografie del disastro, ho ascoltato i racconti tramandati dai membri sopravvissuti della mia famiglia, ma solo al Gran Camposanto ho percepito la spaventosa misura di questo immane disastro, una città di morti dentro un’altra città di morti.

Ma il Gran Camposanto ricorda anche le pagine belle della storia cittadina. Nella parte più alta del Gran Camposanto si trova il “Cimitero degli Inglesi” che accoglie i membri della cospicua ed operosa comunità di imprenditori e mercanti inglesi che qui investirono i loro capitali aprendo opifici e uffici mercantili; anche loro dormono su questa collina, insieme ai cittadini che li accolsero e lavorarono al loro fianco. Ma stringe il cuore vedere, anche qui come nei viali che abbiamo percorso tra le sepolture più antiche e belle, tanta trascuratezza e abbandono.

La passeggiata continua, man mano che saliamo i vialetti diventano più stretti, erti, quasi impervi, ci sembra di fare una scalata, mentre ci avviciniamo al culmine della struttura. Una scalata verso dove? Verso che cosa?

Forse proprio questo voleva l’ingegnere Savoja, che si producesse nell’animo del visitatore quest’attesa, che si formasse questa domanda: “Che cosa c’è ‘lassù’?”. Ancora pochi passi ed ecco nell’area del Famedio -destinato ad accogliere le arche funebri dei Grandi che hanno onorato la città di Messina come il matematico Francesco Maurolico, lo scrittore e patriota Giuseppe La Farina, il poeta e scrittore Felice Bisazza,-  la Galleria Monumentale, l’elegante loggiato di grandiose proporzioni che il grande terremoto del 1908 distrusse ancor prima che il progetto fosse completato per intero. Il Famedio è stato concepito come una grande terrazza affacciata sullo Stretto, uno spettacolare belvedere che spazia tra Tirreno e Jonio immerso in una “scenografia” naturale che quasi mozza il fiato per la bellezza di un paesaggio che credevo di conoscere da sempre e che, d’improvviso, mi sembra così nuovo e meraviglioso.

Mi pare ora di comprendere l’idea del geniale progettista: la maestosità dell’impianto architettonico, che così scenograficamente si inserisce nel paesaggio naturalistico dello Stretto non solo fa del suo progetto un capolavoro indimenticabile ma lo rende, e a me pare come nessun altro, mirabilmente consono alla solennità e alla sacralità del luogo. Guardando, anzi forse più immaginando, l’insieme formato da queste due incantevoli opere, l’una della Natura l’altra dell’uomo, penso che i miei concittadini di fine ‘800, venuti ad onorare la memoria dei Grandi, fossero accompagnati grazie alla contemplazione di tanta bellezza, ad una riflessione più serena sulla Morte.

Che meraviglia, e che rabbia.

Che rabbia sì, perché purtroppo, proprio la Galleria Monumentale, unica porzione edificata del Famedio, è la parte più gravemente compromessa del Gran Camposanto, danneggiata prima dal terremoto del 1908 e poi, e oggi ancora, dall’indifferenza di chi potrebbe e dovrebbe promuovere un intervento di recupero non più differibile.

Che rabbia, dunque, vedere ancora lì, sotto le arcate della Galleria del Famedio, dopo 109 anni, le macerie del terremoto quasi come vennero giù in quel tragico mattino di dicembre. Si ha la sensazione che quasi nulla sia stato bonificato e recuperato, che nessuno abbia sentito il dovere di restituire un aspetto almeno dignitoso a questa parte così importante e bella del Cimitero, luogo sacro perché sacra è la memoria dei defunti.

Andate a fare una passeggiata al Gran Camposanto di Messina, sarà una passeggiata nella Storia e nell’Arte, nella storia del Costume Sociale come in quella della Moda, una passeggiata nella storia di questa Città, ma anche in quella della Sicilia, e dell’Italia perfino. Qui potrete anche vedere come le immani forze della Natura possono violentare l’uomo e la sua opera e come violente, per un altro verso, possono essere l’incuria e il disinteresse di quello stesso uomo verso la sua storia e il suo inestimabile patrimonio d’arte. Visitate il Gran Camposanto di Messina, fatelo presto, prima che la rovina della maestosa Galleria, capolavoro di Architettura e di Arte sia completa e il Famedio per sempre cancellato dall’inesorabile trascorrere del tempo e dalla colpevole indifferenza dell’uomo.

 
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