Sinfonie per corpi. Al Bellini "Rossini Ouvertures" dello Spellbound Contemporary Ballet di Mauro Astolfi

Giuseppe Condorelli

CATANIA. Anche il cartellone del Teatro Bellini omaggia Gioacchino Rossini a 150 anni dalla sua scomparsa. E lo fa nel modo più accattivante – e meno canonico possibile – accogliendo il pirotecnico “Rossini Ouvertures” della Compagnia dello Spellbound Contemporary Ballet di Mauro Astolfi, regista e coreografo. E la nera figura che si aggira contorcendosi sul palcoscenico – prima che il sipario si schiuda – non è altri che il demone stesso del compositore pesarese, ondivago e contraddittorio, genio ipocondriaco e umorale.

L’azzardo di Astolfi e dei suoi nove danzatori – Alice Colombo, Maria Cossu, Fabio Cavallo, Mario Laterza, Giovanni La Rocca, Giuliana Mele, Caterina Politi, Giacomo Todeschi, Serena Zaccagnini – riesce a meraviglia, declinando “Rossini Ouvertures” tutti i temi rossiniani: ironia e amore, pathos e tragedia.

E non deve certo sorprendere nemmeno il connubio Rossini-danza se anche il regista canadese Marshall Pynkoski ne ha sottolineato il ruolo significativo nella messinscena (che porterà la sua firma) della “Ricciardo e Zoraide”, opera giovanile di Rossini, il prossimo agosto al San Carlo di Napoli.

Dunque uno spettacolo suggestivo, eccentrico, non certo una performance didascalica: vi si affollano armonicamente le luci e le ombre che le note rossiniane sprigionano e sulle quali i corpi ricamano – su un evidente humus classico – la composta leggerezza e la imprevedibilità della danza contemporanea. Al centro del palcoscenico, un enorme armadio scomponibile a più ante – vera e propria scatola delle meraviglie e metafora della versatilità rossiniana – che sforna danzatori e oggetti di scena, nascondiglio e finestra ad un tempo, labirinto felice dentro e attorno al quale  vortica lo Spellbound Contemporary Ballet.

Sulle celeberrime sinfonie eseguite dal vivo dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini diretta da Antonino Manuli che ha reso perfettamente la brillantezza ritmica delle partiture – “Il barbiere di Siviglia” , il “Turco in Italia”, “Tancredi”, “Il Signor Bruschino”, “La Cenerentola”, “La gazza ladra”, “Guglielmo Tell” – i nove hanno dato vita ad ora ad una civettuola atmosfera di complice sensualità ora ad una dionisiaca e trascinante anarchia di movimenti e di fughe, per interrompersi prima per la cavatina di Figaro “Largo al factotum”, affidata alla voce di Francesco Auriemma (baritono) e successivamente per quella dolentissima – “Fac ut portem”- dallo “Stabat mater”, del mezzosoprano Martiniana Antonie, l’uno e l’altra cantanti solisti provenienti dall’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda” del Rossini Opera Festival.  

In una sarabanda di bianchi drappeggi, e di piccoli, perfetti tableaux vivant, di vezzi e vortici, alla fine, dietro una tavola imbandita (erano forse i suoi “tournedos”?) è lo stesso Rossini- deus ex machina e gourmet sopraffino – a materializzarsi, pronto a divorare pure l’ovazione che sale da  un Bellini che pullulava sì di un pubblico giovane e giovanissimo, ma non sempre attento ad un richiamo che è parso, davvero, irresistibile.

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