Stalking, la storia di Rachele: il lato subdolo della violenza psicologica sulle donne

Stalking, la storia di Rachele: il lato subdolo della violenza psicologica sulle donne

di Katya Maugeri

CATANIA – «Di lui mi ha folgorato il fascino, il suo modo di parlare, la bellezza, la ricerca minuziosa dei dettagli, e quelle attenzioni. Tutte rivolte a me, curate nei dettagli: gesti, parole, sguardi, respiri che mi hanno trascinata in un vortice intenso di emozioni. Mi sentivo viva, autentica, amata. Poi tutto cambiò. Persi quell’incanto e a tratti persino me stessa».

La sua voce ha mille suoni, tutti diversi: pause, silenzi, commozione, ironia e quel timbro di chi non molla, nonostante tutto. Lei è Rachele, trentenne siciliana. Non è stata picchiata, né violentata. Nessun livido, vertebra spezzata, nessuna nottata al pronto soccorso, né bugie da raccontare per giustificare dei malori.

Ma è protagonista di un processo. Lei è una donna che ha denunciato il proprio uomo per stalking dopo un lunghissimo periodo di violenza psicologica. La violenza ha mille sfaccettature e andrebbero analizzate tutte, non solo quelle evidenti, tangibili a occhio umano. L’anima violata è anch’essa una vittima indiscussa, indifesa e inizialmente impotente dinanzi gesti, parole che come carta ci attraversano. Anche la carta taglia, e te ne rendi conto solo dal sangue, dal taglio, senza ricordarti perché non hai evitato.

La storia che ci racconta, durante il nostro incontro, è una storia d’amore “un amore malato”, lo definisce lei, un legame nato da una profonda voglia di conoscersi, di viversi, «era premuroso, a lui mi sono aggrappata con tutte le mie forze, stavo attraversando un momento di stasi e sì, posso affermarlo: lui mi ha ridato l’entusiasmo che avevo perso», la sua voce vibra e parla di quei momenti felici con chiara nostalgia.

«I miei genitori si sono separati quando avevo sedici anni, ho inseguito mio padre, non volevo andasse via e credo che da allora io abbia sentito la mancanza di una figura maschile, costante nella mia vita, un uomo che potesse darmi sicurezza, farmi sentire speciale. Un trauma dell’abbandono che ho pagato personalmente, ma lui – credevo – fosse capace di colmarlo, di annullare quello spazio vuoto riempito troppo spesso con la paura, la solitudine e l’insicurezza di non essere abbastanza. Lui riusciva a donarmi quelle certezze che ogni donna merita. Dopo un anno di frequentazione decidiamo di andare a vivere insieme, dopo qualche tempo si unirà a questa convivenza anche la sua figlia maggiore, nata dal precedente matrimonio. Mi ha sempre descritto la ex moglie come una pazza, una poco affidabile, una cattiva madre, ma col tempo mi rendevo conto che tutto e tutti dinanzi ai suoi occhi erano troppo imperfetti, mai all’altezza del suo essere narciso».

La loro crisi inizia pian piano a manifestarsi, in maniera latente, quando decidono di avere un bambino. Lei rimane incinta, una gioia condivisa, un progetto futuro da vivere insieme, ma lui purtroppo perde il lavoro e tocca a lei mantenere la famiglia. Figlia di lui compresa. Da questa condizione economica lui fa emergere il reale aspetto psicologico, la natura fino a quel momento taciuta e coperta di attenzioni artefatte.

Competizione, fallimento misto orgoglio: ingredienti senza alcun dosaggio che hanno scatenato la fine di un equilibrio, chiaramente effimero. «I suoi atteggiamenti, le sue parole, i gesti, non erano mai violenti: erano sottili, quasi impercettibili. Durante tutta la gravidanza ho lavorato dodici ore al giorno senza mai fermarmi, e senza che questo sacrificio venisse mai riconosciuto, apprezzato. Tutto dovuto. Lui non riusciva a trovare il lavoro che amava, quindi l’alternativa era stare a casa in attesa», lo dice affranta e delusa.

La situazione declina quando l’uomo manifesta delle reazioni violente – verbali e non solo – con la figlia adolescente: la tormenta annientando la sua personalità, umiliandola come persona e come ragazza. Lui rinnega le sue origini, la sua famiglia e si crea una identità perfetta ben lontana dall’imperfezione altrui. «Nessuna violenza fisica, mai – ribadisce Rachele – mi devastava psicologicamente, ma in quei momenti non capivo, non realizzavo. Poi mi è stato tutto chiaro e mi sono ribellata. E tutto è stato un divenire di eventi tristi, un incubo: tagliava i miei abiti, i miei costumi, cercava di distruggermi nell’essenza di donna, nella mia vanità, colpendo le mie insicurezze. Alimentandole e creandone di nuove, manovrava i miei stati d’animo. Agiva in maniera subdola. Lo lasciai, ma lui chiaramente non accettò la mia scelta e lo ritrovavo al mare, nei locali che frequentavo con le amiche, usava persino la figura di nostro figlio per avvicinarsi sempre più a me». Poi sceglie di reagire concretamente, affrontando la realtà, accentandola per quella che era. Ne parla con una donna che il dolore lo conosce bene, Vera Squatrito, madre che ha perso la figlia uccisa con 48 coltellate, Giordana Di Stefano, e per lei non ha mai smesso di lottare. Le donne hanno una marcia in più, quell’amore materno che il tempo non può mutare, né alterare. Vera la sostiene e le consiglia di affidare le sue paure, i suoi dubbi senza timore né vergogna all’associazione di volontariato “Cuore di Donna onlus” diretta da Ketty Reitano.

«Denunciai ad agosto del 2016 e il 5 dicembre 2017 per stalking. Il padre di mio figlio, l’uomo che amavo e al quale avevo affidato ogni mia debolezza, paura, fragilità. Lui le stava usando contro di me. Nessuno ha mosso un dito dopo la mia prima denuncia, è terribile ammetterlo, ma le Istituzioni sono assenti. Se solo si pensa che a coloro che uccidono non riescono a garantire una pena severa, lunga, eterna. Il processo è già iniziato e si sa, sono tempi lunghi, attese, speranze per un futuro migliore e silenzi. Quei silenzi ricevuti da chi ha scelto di allontanarsi da me e dalla situazione che vivevo e vivrò nei prossimi anni: amici e conoscenti che hanno preferito voltarsi dall’altra parte».

Rachele, inoltre, ha chiesto l’affidamento esclusivo del figlio che durante i suoi incubi continua a ripete turbato: “Papà ti uccide, ho troppa paura”. Un amore malato, una dipendenza affettiva che ha segnato in lei un nuovo percorso, un modo diverso di approcciarsi alla realtà con la fragilità di chi viene ferita, deturpata nell’anima ma con il coraggio di continuare ad essere una madre forte e una donna capace, nonostante tutto, di sognare.

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