Storie in prossimità, Librino tra ombre e resurrezione

Storie in prossimità, Librino tra ombre e resurrezione

di Katya Maugeri

CATANIA – «In molti hanno cercato di dare una mano a Librino, di garantire la loro presenza. Forze esterne preziose che hanno creduto in un progetto di vita: la grande difficoltà – paradossalmente – è trovare persone disponibili a sporcarsi le mani nel proprio quartiere perché è lì che il lavoro diventa fruttuoso e credibile». Don Aristide Raimondi è un giovane prete, carismatico e le sue parole sono intrise di umanità. La sua voce è rassicurante e con lui inauguriamo una inchiesta in collaborazione con la Fondazione Ebbene diretta da Edoardo BarbarossaUna inchiesta che racconta il nostro territorio non solo contaminato dal marcio e dal degrado ma da “storie in prossimità”. Le storie del bene donato, quello che trasforma il dolore in possibilità, nel nuovo bivio da scegliere. Storie di uomini e donne che operano nelle periferie valorizzandole con il valore aggiunto dell’amore incondizionato.

Don Aristide è membro della comunità Papa Giovanni XXIII, e all’inizio del suo mandato presbiterale era stato destinato in una ricca parrocchia etnea: ma il suo posto era altrove. Erano le periferie e per nove anni è stato Librino in cui famiglie in difficoltà, persone emarginate, bimbi di strada sono lasciati a se stessi in attesa di un riscatto non sempre ottenuto.

«Servirebbe lavorare sulle risorse buone, quelle positive che persistono nel quartiere – e sono tante – perché la mancanza che disarma Librino è di natura culturale. Unire le risorse e partire da lì».

Per molte famiglie l’esperienza del carcere diventa un rito: un percorso inevitabile, perché la loro “professione” comporta anche quell’imprevisto, l’inciampo – come viene definito -, molti di loro non ammettono l’errore commesso e continuano ad attribuire la colpa alla legge, alle istituzioni, al potere che li danneggia. Sembrano rassegnati e non riescono a  vedere l’aspetto negativo delle loro scelte, li considerano normali e le più appropriate: il carcere è un incidente e nel loro modo di vivere il quartiere, lo Stato mette il bastone tra le ruote nelle loro attività. L’esperienza carceraria, quindi, li accredita come persone competenti – nel loro ambiente chiaramente – e tornati sul territorio continueranno a rubare il rame, il ferro e a spacciare. Ma Librino non è solo droga, mafia e delinquenza: è un luogo spesso abbandonato nel quale sogni e voglia di ricominciare vorrebbero solo prendere vita. E come? Con gesti concreti di chi ha fiducia nell’uomo. «Sono in tanti i giovanissimi che vivono l’esperienza amara e poco fruttuosa degli arresti domiciliari, una delle situazioni più comuni nel territorio, ma che non porta nessun riscatto».

Librino è pieno storie, anche di belle storie. «Ricordo una coppia, giovanissima, lui ai domiciliari per piccoli reati, lei madre di tre figli nonostante la giovane età. Hanno chiesto aiuto alla parrocchia, volevano sposarsi lei diceva spesso che desiderava ricevere “la benedizione del Signore”. Noi li abbiamo aiutati, la comunità Papa Giovanni XXIII ha provveduto a cercare un lavoro al ragazzo, inizialmente poco retribuito, ma lui ha ben accolto la nostra proposta. Questa è una di quelle storie che amo definire non solo come esperienza di riscatto, ma di risurrezione». Don Aristide è commosso e orgoglioso di poter raccontare gli angoli oscuri di una realtà emarginata dai pregiudizi e dall’incapacità di guardare oltre il degrado. Quel giovane ragazzo, grazie alla presenza attiva della comunità e di don Aristide, degli operatori, ha capito che nella sua vita c’era un’altra possibilità che non era destinato all’oblio del carcere o alle scelte delinquenziali, ma poteva scegliere da che parte stare.

«Dopo pochi mesi di lavoro – continua don Aristide – si sono sposati e sono diventati nuovamente genitori, ha trovato un nuovo lavoro più redditizio e nonostante le difficoltà è riuscito a tirarsi fuori da quelle dinamiche nocive. Sono rimasti grati alla comunità, agli operatori pastorali della parrocchia, ci danno una mano, si affidano con amore incondizionato».

Momenti e storie di risurrezione e di oscurità, ombre di ragazzi rassegnati, «ombre che vediamo già nei bambini che conosciamo, bambini di strada che non vanno a scuola, li vediamo già alle sei del mattino a commettere piccoli furti, ma non si fa nulla. Cosa manca? Il riscatto per i nostri bambini: insieme alle scuole i presidi andrebbero aiutati di più per offrire concretamente la possibilità di un riscatto forte, che in parte si sta realizzando, proposte belle, iniziative concrete, un inserimento culturale per un futuro migliore. Saranno loro a donare un volto nuovo al quartiere. Io parlo con loro e quando accenno alla probabilità di finire in carcere per le loro azioni loro sorridono e rispondono: “E che ci fa? Così vado a trovare mio padre, mio zio, mio nonno». È una realtà che non può lasciarci indifferenti. Storie che non conosciamo sovrastate dall’idea che ci siamo fatti delle periferie: luoghi da evitare. E invece sarebbero luoghi da ascoltare, intriso di silenzi e di urla come quelle delle donne di Librino.

«La straordinaria forza delle donne di Librino mi ha disarmato, tra i disagi e la sofferenza in un luogo in cui ancora oggi vige la legge dell’uomo che comanda su tutto. La donna deve servire il marito senza discutere. Noi abbiamo raccolto, in questi anni, tantissime storie drammatiche di donne che sono inserite in un contesto in cui il suocero, il marito vivono l’esperienza delinquenziale e il loro “ruolo” consiste nel poter portare appena il televisione, la lavatrice, regali costosi ai figli per non emarginarli con gli altri bambini, mentre queste donne in maniera onesta vanno a lavorare. Loro faticano, lavano le scale, sostengono e mantengono realmente la famiglia. I loro soldi servono per acquistare la spesa e i bisogni primari necessari per i figli e non per i mobili di lusso, il maxi schermo, capi d’abbigliamento griffati. Donne che mi hanno più volte detto: “noi ci manteniamo da sole”, scelgono di abbandonare queste dinamiche per preservare i figli crescendoli da sole. “Lavorando tiro fuori mio figlio dal fango, da quella strada popolata di morte”, ripetono».

La conoscenza superficiale della realtà e dei luoghi conduce molto spesso al pregiudizio, all’ignoranza culturale  che chiude la mente spesso veicolata dai luoghi comuni e dai media. «Chi mi guarda con stupore, terrore e disgusto quando pronuncio con orgoglio il quartiere di Librino è gente che non ha mai camminato per quelle vie, sono persone che non hanno toccato con mano la bellezza della fragilità, saperla riconoscere per poterla colmare. Come si dovrebbe agire? con la conoscenza. Ci sono realtà sulle quali andrebbero accesi i riflettori, puntando sulle cose belle, educando la città a guardare la periferia come una risorsa e non come lo sgabuzzino di casa». Cosa le ha insegnato Librino in questi nove anni? «È stato un master di umanità, ho sperimento quanto sia importante ascoltare l’uomo per quello che realmente è non per ciò che appare. Nove anni con orecchie e cuore attenti ad accogliere la sofferenza riconoscendo la sua ricchezza. La periferia ti dà una marcia in più, ognuno di loro ha affinato la capacità di discernimento: imparare ad annunziare Dio partendo dall’uomo e dall’ascolto».

Send a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *