Suicidi in carcere, Antigone: “Dietro al silenzio c’è anzitutto l’indifferenza di tutti noi"

Suicidi in carcere, Antigone: “Dietro al silenzio c’è anzitutto l’indifferenza di tutti noi"

di Katya Maugeri

In carcere si continua a morire, tra il silenzio e l’indifferenza. Nei giorni scorsi due uomini sono morti a seguito di un lungo sciopero della fame. Due detenuti del carcere di Augusta, entrambi condannati all’ergastolo. Sono deceduti in ospedale, a distanza di quindici giorni. Lo sciopero della fame, di 41 e 60 giorni, era una protesta contro le condizioni di detenzione: il 45enne siciliano Liborio Davide Zerba e  Victor Pereshchako, cittadino russo, che dal 2018 chiedeva l’estradizione così da poter scontare la pena nel suo paese. Inoltre, un terzo detenuto ha tentato il suicidio con un lenzuolo, ma è stato soccorso in ospedale. Quanto accaduto, ancora, riaccende i riflettori su una realtà che cerchiamo di oscurare, ma che in maniera dirompente cerca di scuotere le nostre coscienze.

«Dietro a questo silenzio c’è anzitutto l’indifferenza di tutti noi. Ci spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone. A molti problemi sociali rispondiamo con sempre più carcere, chiedendo al carcere di far sparire quei problemi, e quelle persone, dalla nostra vista. E il carcere fa questo, ogni giorno, gestendo con grande fatica le enormi criticità e sofferenze che molte persone portano con sé quando entrano in carcere, e che durante la detenzione si fanno spesso sempre più gravi. Lo fa nell’indifferenza generale, e appunto nel silenzio. E finisce per farlo in solitudine, senza tutte le risorse di cui avrebbe bisogno. Se il carcere imparasse a raccontare le proprie difficoltà forse sarebbe meno solo nell’affrontarle».

Sono storie di fragilità e mancato supporto psicologico. Il disagio psichico è certamente una di queste difficoltà. «Non esistono dati ufficiali sulle nostre carceri – continua Scandurra – ma da quelli raccolti da noi durante le 97 visite da noi svolte nel 2022, il 9,3% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, il 19,9% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, farmaci molto potenti che vanno somministrati con grande cautela e con protocolli medici ben precisi, mentre il 40,3% dei detenuti, quasi la metà, assume sedativi o ipnotici. Numeri esorbitanti, che non esistono in altri contesti se non appunto nelle strutture psichiatriche, e che sono il segno del disagio psichico che il carcere ogni giorno gestisce, con strumenti quasi esclusivamente farmacologici».

Nelle storie di detenuti suicidi emerge però un denominatore comune drammatico: il disturbo psichico, che sembra però essere ignorato o sottovalutato. «Bisognerebbe anzitutto rendere pubblici i dati relativi al disagio psichico che negli istituti i medici del servizio sanitario ogni giorno registrano, e delle risposte terapeutiche che sono in grado di mettere in campo. La detenzione non significa privazione di ogni diritto, e certamente non significa privazione del diritto alla salute. I detenuti hanno diritto ad essere curati esattamente come i cittadini liberi. Questo purtroppo – conclude Alessio Scandurra – spesso non accade, ed anzi la detenzione diventa un contesto in cui molte patologie si aggravano. Per questo, come per altri problemi del carcere, la prima risposta è anzitutto la trasparenza».

Servono, pertanto, interventi concreti affinché il carcere possa davvero educare e non condannare a morte.

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