Giuseppe Condorelli
CATANIA – Due sorelle querule e litigiose, vecchie e sgraziate, “lo reassunto de le desgrazie, lo protacuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza” così come le descriveva nel “Trattenemiento decemo de la Jornata primma” del suo celeberrimo cunto, Gianbattista Basile. Terreno fertilissimo quello de “La vecchia scortecata” da cui Emma Dante cattura l’impianto narrativo per la sua potentissima rilettura de “La scortecata”, sui legni del Piccolo Teatro della Città.In fondo l’operazione drammaturgica della Dante, che ne firma testo e regia, è la medesima di Basile – tutto il cuntu è infatti una meravigliosa trappola teatrale: lì la falsificazione del genere novella, che sedimenta da un altrove prodigioso e appare frutto di un capriccio passeggero; qui, nella deviazione operata dalla Dante verso l’humana condicio delle due sorelle, costrette a viversi accanto nel forzato colloquio delle loro solitudini, sullo sfondo di un disfacimento fisico e relazionale inesorabile. Assunto dunque il (duplice) criterio, della contraffazione e della libera interpretazione, l’atto unico può benissimo dispiegarsi tra comica e improvvisazione, cartone animato e sketch, tutti elementi proiettati nella funambolica, infaticabile espressività dei corpi attoriali: gli straordinari interpreti maschili (che nei modi della Commedia dell’Arte diventano le femmine Carolina e Rusinella): Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, macchiette esilaranti e tragiche ad un tempo. “La scortecata” opera dunque uno slittamento dal barocco della forma – il racconto, la parola, il dialetto immaginifico e difficilissimo di Basile – a quello della sua interpretazione. Emma Dante racconta una fiaba orribile, soprattutto col e nel corpo: i tremolii, i contorcimenti, gli spasmi degli interpreti rappresentano sì il delirio della parola, il continuo saliscendi sulla vertiginosa giostra della scrittura secentesca, ma rinviano soprattutto a quello della materia – delle membra, della voce – e alludono alla condizione inaccettabile della vecchiezza: quindi della morte.
La miniaturizzazione del contesto originale della fiaba – il castello del re di Roccaforte di Basile diventa solo un modellino al centro di una scena che si asciuga quasi contraendosi: due sedie, una scala, una porta simbolicamente intesa come varco tra uno e l’altro dei personaggi (le vecchie, il re, la fata), tra l’uno e l’altro dei caratteri, tra l’uno e l’altra dell’espressività orale – è funzionale alla rilettura della Dante. La stessa storia – il re gabbato dal dito “levigato” di una delle due vecchie che giace con lei, lo svelamento dell’inganno, la defenestrazione della vecchia, che “fatata” in una incantevole ragazza sposa il re, mentre l’altra sorella, invidiosa della sua fortuna, si fa scorticare viva per farsi bella – quasi scompare per diventare frutto dell’immaginazione, sogno di un sogno che serve a sopravvivere alla miserabile routine domestica. Carolina e Rusinella si raccontano la stessa favola: “fauzitate” appunto: menzogne.
La potenza registica di Emma Dante è qui. Una regia che pretende il massimo dai corpi – sui quali riscrive il testo di Basile – e dalla loro potenzialità e che innerva il contrappunto dell’atto unico: da un lato il vortice della parlata, dello sghignazzo e dell’esagerazione che poco a poco s’innesta nell’altro: la riflessione sulla vecchiaia (certo, anche tipicamente barocca) e sulla falce del Tempo, sulla vanità della Bellezza, sulla problematicità dei rapporti familiari – su cui, ricordiamo, la Dante aveva imbastito quella piccola grande storia di abiezioni quotidiane e di incomprensioni che è “Il festino”.
Intercalata da una miscellanea della tradizione musicale partenopea (da “Reginella” interpretata da Massimo Ranieri a “Cammina cammina” di Pino Daniele; da “Comme facette mammeta” di Pietra Montecorvino a “Mambo italiano” di Carosone), “La scortecata” (così come quel “Festino”), indagando ancora una volta il “corpo” e il suo ineluttabile sfiorire nel segno del inquietudine esistenziale, senza la facile mozione della compassione, fiorisce nell’atto d’amore e di pietà che la chiude. E il sinistro luccichio della lama che cala per “scorticare” la sorella sembra davvero essere il riflesso di una lacrima prima del buio. Con Emma Dante i “peccerielle” di Basile sono diventati vecchi dispettosi, incorreggibili, tremendi.