Terremoto a Fleri, ma ha veramente senso andar via dal paese in massa?

Saro Faraci

FLERI – La violenta scossa di Santo Stefano è durata pochi secondi, è stata anomala per l’inaspettata accelerazione al suolo, è stata violenta perché ha causato molti danni materiali e tanto dolore psicologico. Ma anche il resto che ha fatto seguito all’evento sismico è nondimeno doloroso. E’ dal giorno dopo il terremoto che si susseguono dichiarazioni, esternazioni, ipotesi che fra sensazionalismo ed improvvisazione fanno ancora più male della scossa di Santo Stefano. Con un po’ di fatalismo si potrebbe dire che piove sempre sul bagnato.

E’ da un paio di giorni che circola con insistenza la parolina magica delocalizzazione che, per i non addetti ai lavori, significa ricollocare altrove edifici ed abitazioni ed allontanarli in sicurezza dalla faglia di Fiandaca. E’ una ipotesi, forse soltanto una suggestione, l’auspicio è che non diventi pensiero unico dominante nato da convinzioni che non sono però evidenze scientifiche in atto. Delocalizzazione. Non si capisce bene se il termine sia utilizzato sempre con cognizione di causa per tutto quello che ne potrà derivare; se è tirato fuori come espediente per differire decisioni politiche che invece si potrebbero già adottare fin da adesso con un po’ di coraggio; se è necessario prender tempo perché bisogna fare prima qualcos’altro che però non si capisce bene cosa sia; se la parolina è evocata per tenere sotto scacco i Sindaci dei territori e sollecitarli ad accelerare le attività di loro competenza, salvo poi far mancare in altre sedi il personale tecnico-amministrativo in più per gestire questa emergenza; o se piuttosto delocalizzare è un modo subliminale per mandare a dire a molti che forse è più conveniente beneficiare il prima possibile del contributo minimo per la ristrutturazione e non vantare più nessun’altra pretesa futura di ristoro finanziario perché sarebbe difficile dimostrarne successivamente la piena legittimità. Insomma, c’è un po’ di confusione.  E in mezzo a tanta confusione, se non ben governata, si rischia di fare passi falsi.

A parte il fatto, ad esser rigorosi, che il termine delocalizzazione ha senso usarlo quando riguarda lo spostamento lontano dal luogo di origine di processi produttivi e di attività economiche e non invece di abitazioni ed edifici già esistenti (etimologicamente questo è il suo significato economico), ma sorprende la leggerezza e la disinvoltura con cui sia evocato a proposito di un post-terremoto. Ci vorrebbe un po’ più di prudenza anche negli ambienti istituzionali. Perchè questa volta delocalizzare non è più la boutade sensazionalistica di una trasmissione salottiera andata in onda sulla tv di Stato che, dopo le allucinanti affermazioni della Fialdini e dei suoi ospiti in studio a poche ore dal terremoto, aveva scatenato prontamente una lunga catena di reazioni. No, qui la delocalizzazione comincia a diventare una ipotesi di lavoro istituzionale di cui ieri a Roma si è discusso in una riunione alla presenza del sottosegretario Vito Crimi. E alla riunione erano presenti anche tecnici non soltanto politici.

La delocalizzazione, ammesso che si possa praticare, è una faccenda seria. Molto seria. Dovrebbe riguardare tutta l’Italia, non solo il versante orientale della Sicilia dove c’è l’Etna. Andrebbe valutata come ipotesi di lavoro soltanto sulla base di studi geologici certi ed approfonditi sul processo di fagliazione in atto. E non risulta che questi studi siano tutti disponibili, soprattutto per quanto riguarda la micro-fagliazione che è cosa ben diversa dalla macro-fagliazione in atto sull’intero territorio etneo. E che facciamo, spostiamo l’Etna in mezzo al mare, la delocalizziamo con tutte le comunità di genti che vivono alle sue falde? Ancora, la delocalizzazione andrebbe approfondita sulla scorta di studi ancor più puntuali e precisi che però sono costosi per la strumentazione tecnica richiesta e che, in tempi di spending review, non si capisce bene con quali soldi andrebbero finanziati.

Poi c’è da dire che la delocalizzazione andrebbe ancora sviscerata in ogni singolo aspetto con valutazioni di impatto economico-sociale sul territorio e di tali previsioni non se n’è mai parlato fin ad ora. Non passa giorno in cui non precipiti la situazione economica del territorio. Già il solo evocare il termine terremoto ha spopolato di turisti Catania e tutta la zona etnea nei giorni immediatamente successivi al terremoto e le cancellazioni dalle strutture alberghiere e ricettive proseguono ancora per questa forma di psicosi collettiva. Immaginiamo per un attimo cosa significherebbe in termini di impatto economico, occupazionale, di reddito e anche dell’intero tessuto sociale far sparire per sempre attività produttive, commerciali, artigianali solo perché non si sono fatti seri approfondimenti in materia.

Inoltre, la delocalizzazione andrebbe considerata in termini di implicazioni sulla programmazione urbanistica attuale e futura di un territorio, cioè di impatto sul piano regolatore di un Comune. E anche in questo caso, non risulta che siano state effettuate queste valutazioni, anche perchè i Sindaci in questi giorni sono stressati ed impegnati sul fronte dell’emergenza e non hanno nemmeno il tempo per pensare ad alternative e suggestive ipotesi di revisione degli strumenti di pianificazione urbanistica.

Ma c’è soprattutto una considerazione preliminare che andrebbe fatta a monte. Se è giusto e sacrosanto che una costruzione nuova di sana pianta dovrà rispettare totalmente le distanze minime di sicurezza dalla faglia, anche quando tali distanze saranno riconsiderate normativamente a seguito di nuovi studi; non ha senso però ventilare ipotesi di delocalizzazione in presenza di edifici già esistenti, eretti o ristrutturati a suo tempo nel rispetto di criteri anti-sismici, dunque regolarmente approvati e non abusivi, e comunque localizzati all’interno di un centro urbano abitato e non giacenti sul letto di un fiume o in prossimità di zone franose. Ogni rischio legato ai movimenti della terra, sia esso vulcanico o sismico, di evento alluvionistico o di movimento franoso, deve essere attentamente ponderato. Questo non è il caso di Fleri e nemmeno di tante altre zone colpite dal sisma di Santo Stefano, dove ci sono fenditure secondarie che non hanno la stessa importanza della faglia di Fiandaca. Se si conviene che non ha senso nemmeno discutere di questa ipotesi, allora perchè parlarne e generare inutile allarmismo, soprattutto quando tanta gente è fuori di casa, ospitata negli alberghi o da altra parte, desiderosa di farvi ritorno e soprattutto di riprendere quanto prima il corso della normalità?

E poi, un’ultima cosa. Ma risulta chiaro ad oggi il quadro di insieme dello stato degli edifici danneggiati, quando sembra che la maggioranza di essi abbia subito danni ingenti ma non strutturali, danni che potrebbero essere ristorati con somme fino a 25.000 euro, ma che se dovessero essere stimati effettivamente di importo superiore avrebbero comunque diritto ad essere ugualmente risarciti, come suggeriva la prima ordinanza Borrelli della Protezione civile nazionale (la 566) poi emendata nella successiva (la 570) con misure ancor più restrittive?

Il fascinoso tema della delocalizzazione dunque rischia di essere utilizzato come strumento di distrazione. La gente vuole ripartire subito e in fretta. A Fleri, a Pennisi, come in tutti gli altri luoghi colpiti dal sisma di Santo Stefano. Questo è ciò che conta nell’ottica del risultato finale. Tutto il resto viaggia sui binari della logica dell’adempimento ispirata al sacrosanto criterio della legalità ma che si imbriglia facilmente nella macchinosità della burocrazia.

L’immagine che riportiamo in apertura, che si riferisce alla apprezzatissima macelleria di Giovanni Cavallaro a Fleri, è emblematica: 1929-26 dicembre 2018…e adesso ripartiamo. Vale più di mille parole; più delle ricorrenti emergenze conseguenti ad un’emergenza più grande; più della retorica post-terremoto talvolta stucchevole; più della procrastinazione delle decisioni politiche; più dei se, dei perchè e dei come mai che diventano domande inutili, di fronte ad un “terremoto senza morti” che però non è stato un terremotino. Questa immagine esprime la forza del “come”, cioè come fare per reagire e lancia un messaggio positivo: “State tranquilli, in un modo o nell’altro ripartiremo”.

 

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