di Belinda Martori e Marta Monaca
Nel nostro Paese la storia delle grandi aziende s’intreccia spesso con la politica e l’ex Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa, non è da meno.
La sua storia comincia ai primi del 900 ed è segnata da grandissime evoluzioni che ci riportano al ’95, all’acquisizione da parte della famiglia Riva che ne rimane proprietaria fino al 2012 quando viene aperta un’inchiesta ai suoi danni per aver causato gravissimi disastri ambientali. Nonostante l’intervento della magistratura, la situazione ambientale a oggi non è cambiata, l’impianto è stato sequestrato alla famiglia Riva, ma è rimasto aperto sotto il controllo dello Stato.
Nel 2017 l’industria viene nuovamente privatizzata perché lo Stato, mediante gara d’appalto, raggiunge un accordo con il colosso industriale Arcelor Mittal. In cambio di una bonifica del territorio e di strumenti preventivi per l’ambiente, la società Franco-Indiana ottiene uno “scudo penale”, già garantito ai commissari nel 2015 da Renzi, mediante il quale il nuovo proprietario non potrà essere processato per danni ambientali dovuti alle gestioni precedenti.
Lo scenario cambia nuovamente con l’ingresso dei Cinque Stelle che, con l’appoggio della Lega, decidono prima di eliminare lo scudo penale, poi di reintrodurlo a Settembre e, infine, di eliminarlo a Ottobre, stavolta con l’appoggio del PD.
I continui cambiamenti politici mettono a rischio gli accordi economici e, infatti, il 4 novembre Mittal risponde alla mossa del governo con una lettera di rinuncia al contratto d’affitto che si sarebbe automaticamente trasformato in acquisizione nel 2020 poiché “la modifica legislativa rende impossibile la gestione e l’attuazione del piano industriale”.
Tale rinuncia sarebbe disastrosa per l’Italia perché l’Ilva dà lavoro a più di 10.000 persone, di cui 8.000 solo a Taranto, e la chiusura dell’impianto costerebbe ben 24 miliardi di euro con conseguente perdita per l’Italia dell’1,4% del suo PIL.
Viene da domandarsi se il signor Mittal stia davvero abbandonando la barca per il mancato rispetto delle clausole contrattuali. Andando a fondo nelle vicende dell’acciaieria scopriamo, infatti, che l’impianto perde 2 milioni di euro al giorno e questa altalena politica ha solo procurato l’alibi perfetto per l’industriale indiano per sottrarsi ad un affare ritenuto non più vantaggioso. Sembrerebbe, tra l’altro, che il colosso sia stato il primo a non avere rispettato gli accordi di bonifica del territorio e della messa in sicurezza del secondo altoforno che ha già causato la morte di un operaio nel 2015.
In questa bagarre, certa parte della società e della politica accusa il governo di aver tolto lo scudo penale e di avere portato la situazione alla deriva. Vien però da chiedersi se “certa parte” abbia chiaro cosa lo scudo comporti. Per anni tutti coloro che hanno preso parte alla gestione dell’Ilva sono stati immuni da qualsiasi indagine o accusa relativa alla sua gestione; sembrerebbe pertanto che la misura sopra citata non protegga dagli errori del passato, quanto da quelli del presente. Di questa stessa idea è anche il direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio: “non succederà mai che un commissario paghi per quello che hanno fatto i Riva… ognuno davanti alla legge risponde di quello che fa. Loro non vogliono lo scudo per coprire quello che hanno fatto quelli di prima, vogliono lo scudo per quello che faranno dopo”.
Oggi l’Italia è più che mai dolorosamente divisa in due, tra chi pensa sia necessario chiudere definitivamente l’impianto per salvaguardare la salute della popolazione e chi è focalizzato sul disastro economico che ne deriverebbe.
Senza un’intesa tra le parti si rischia “la battaglia legale del secolo”, così definita dal Premier Conte.
Se Arcelor Mittal dovesse effettivamente tirarsi indietro, si profilerebbero questi possibili scenari: la nazionalizzazione dell’impresa o il suo smantellamento e chiusura, oppure la ricerca di nuovi investitori.
A un’analisi attenta lo Stato Italiano non sarebbe affatto in grado di gestire e mettere in atto i miglioramenti necessari alla struttura; nella seconda ipotesi l’Italia perderebbe l’1,4% del suo PIL e la percentuale di disoccupazione aumenterebbe esponenzialmente. Dunque, fra le tre soluzioni, l’ultima sembrerebbe la migliore, ma non la più semplice data la scarsa appetibilità dell’impianto.
Lo scenario probabilmente più auspicabile, e su cui sta lavorando il Premier, è piuttosto un nuovo accordo con Mittal. A seguito delle riunioni del 22 Novembre, sembrerebbe che l’imprenditore sia disposto a redigere un nuovo piano industriale che “assicuri il massimo impegno nel risanamento ambientale” a fronte di un “coinvolgimento pubblico”.
La battaglia legale è quindi on hold, ma è solo l’inizio di un percorso “complicato e il cui esito non è per nulla scontato”.
Mentre il destino dell’ex Ilva tiene tutti con il fiato sospeso e il governo è al lavoro al fine di raggiungere un compromesso, viene da chiedersi se in un futuro non cosi tanto lontano anche l’Italia sarà capace di seguire l’esempio virtuoso di altri impianti petroliferi. Primo fra tutti l’impianto austriaco di Linz, la seconda città più pulita del Paese. Il cammino è già stato tracciato, saremo in grado di percorrerlo?