Un viaggio tra gli ultimi: il gruppo Abele riapre il Drop in

Un viaggio tra gli ultimi: il gruppo Abele riapre il Drop in

di Katya Maugeri

È quasi estate, giugno avanza. Però, il cielo di Torino restituisce qualcosa di autunnale. Arriva presto Hamza, tra i primi a varcare il cancelletto di via Leoncavallo. Sarà l’umido, saranno gli odori, saranno i colori slavati. Sono le 9 e l’aria è dipinta di un grigio che non sa se diventare azzurro. Piove da giorni e ovunque sono pozzanghere.

Lorenzo Camoletto è uno degli storici operatori del Drop in (struttura di bassa soglia ideata per accogliere adulti in difficoltà) del Gruppo Abele. E dell’associazione fondata da don Luigi Ciotti esattamente 55 anni fa, è anche uno dei più esperti formatori in fatto di dipendenze, droghe e tossicodipendenze. È lui ad aprire il cancello ad Hamza, bardato come un personaggio in un libro di Volodine, vestito di fantascienza, camice verde, mascherina e visiera. In mano il termoscanner per misurare la febbre e, su un tavolo proprio accanto a lui, gel per le mani, mascherine, un blocchetto con fogli numerati.

È il rito stanco e ormai abitudinario del Drop in del Gruppo Abele che esce dal lockdown, ma non dalle precauzioni dettate da questi mesi di Covid. «Il Drop in ha riaperto – ci racconta Camoletto – ma in modo parziale. Accogliamo le persone nel cortile, ma non abbiamo le docce aperte. Mancano alcuni servizi e non facciamo entrare tutte le persone insieme».

Mesi in cui il servizio è stato chiuso. Ma cosa ha lasciato l’emergenza sanitaria? «Nei frequentatori che abbiamo ricominciato a vedere, ha lasciato parecchio smarrimento e la convinzione di essere tra le categorie che pagano un po’ per tutti. Ognuno di loro ha trascorso questo lungo periodo con un po’ di paura: una situazione di ritiro sociale maggiore rispetto agli altri perché non c’erano posti dove passare la giornata». Con ripercussioni inevitabili per i consumatori, molti dei quali stranieri. La maggior parte senza fissa dimora, per cui è stato impossibile (o quasi) avere accesso a materiale sterile, a una doccia, anche solo a un caffè caldo.

foto gruppo Abele

Hamza, per esempio. Lui, marocchino della periferia di Casablanca, ha oscillato tra dormitori e ripari di fortuna.

A Torino, il terzo settore ha supplito a tutte le carenze di un pubblico a tratti apparso spiazzato e irretito dalla situazione emergenziale. E nonostante l’impegno di centinaia di operatori, non sempre si è riuscito a fare fronte alle esigenze di tutti. Hamza avvicina la fronte, sorride e un pochino bofonchia. A questo nuovo Drop in, spostato da una struttura chiusa a un cortile all’aperto, ancora non ha fatto del tutto l’abitudine. 36.2 dice lo scanner. Tutto bene, può accedere.

Camoletto gli sorride, ma il suo sorriso lo si intuisce solo. Fa una battuta, come una sorta di benvenuto detto con poche parole, gli dà la mascherina, il numerino per prendere la colazione: caffè caldo, o latte o tè, cioccolata o pane, e il materiale sterile.

Il cortile di questa struttura gestita storicamente dal Gruppo Abele, e al cui interno coabitano più servizi dell’associazione (il dormitorio femminile, il centro diurno, il centro crisi per tossicodipendenti, la Drop House – che propone attività per donne vulnerabili – e, prima della pandemia, appunto il Drop in), è in questa fase, che è la fase senza numeri, ancora più dell’ordinario un affaccio diretto sulla strada e accoglie le richieste che dalla strada arrivano.

Qui opera adesso il Drop in, ogni lunedì mattina. Qui, il martedì, c’è uno sportello organizzato dell’Educativa di strada del Gruppo che fornisce assistenza per il disbrigo di pratiche, aiuta a uscire dai cavilli delle richieste burocratiche e orienta al lavoro. In questo cortile, che quando piove è tutto un buttero di pozzanghere che a destra e sinistra sono circondate da gazebo, quelli per la distribuzione. Sotto i gazebo ci sono gli operatori e i volontari. C’è Liz neozelandese di nascita, collaboratrice storica e ora volontaria del Gruppo Abele. C’è Joana mediatrice culturale ed educatrice arrivata a Torino passando per Roma, Lella volontaria torinese già collaboratrice di altri servizi di riduzione del danno.

E ci sono Mustafa che si affaccenda intorno ai bollitori e alle caffettiere e Salvatore, operatore del Gruppo Abele, napoletano trapiantato a Torino che non ha perso sorriso e accento, che è tutto un consigliare, allungare bicchieri pieni di bevande calde per ritemprare i muscoli dopo il freddo della notte e smistare gli ospiti verso un angolo dove c’è un po’ più di luce e che, per questo, torna buona per i tavolini e le sedie.

Chi vuole si siede e sta lì. Dieci minuti, un’ora o tutto il tempo dell’apertura del servizio, aspettando magari di essere visitati dai medici di Rainbow for Africa che da maggio operano in sinergia con il Gruppo Abele. Pochi parlano davvero. Per lo più tirano fuori poche parole, di circostanza, di saluto.

«La nostra gente non può dire di vivere una emergenza nuova – continua Camoletto – loro stessi sono una emergenza. Sono l’essenza stessa dell’emergenza, quindi c’è bisogno di tutto, esattamente come prima». Perché al di là degli spot consolanti e delle narrazioni avvincenti, il Covid ha messo a dura prova la resistenza fisica oltre che psicologica di chi ha per casa la strada.

I dimenticati si sono sentiti ancora più dimenticati, sotto gli occhi della gente. Qui si percepisce vividamente come la normalità sia lontana, forse un desiderio da esprimere, e di come sarà difficile fare finta che niente sia successo. «Noi non riusciamo ancora a ripartire con alcuni servizi essenziali. È un danno enorme. Serve la possibilità di accogliere con una modalità di bassa soglia persone che, essendo particolarmente fragili, non possono stare all’interno di dettami comuni».

Quando arriva l’una, sono una quarantina le persone che sono passate. Salvatore, insieme ad alcuni volontari, ammassano la roba in grossi contenitori di plastica. I gazebo pian piano si smontano. Comincia a piovigginare. Ancora. Camoletto si guarda intorno, controlla se ci sia ancora qualcuno, poi alza la visiera, respira scansando un po’ la mascherina, toglie via il foglio scritto a mano che segnala l’accesso, il cancelletto cigola e si chiude.

«Alcuni dei ragazzi, per fortuna, erano inseriti in comunità. Ma poi sono usciti e chi li aveva ospitati non li ha voluti più. Perché stare in comunità non dedicate e attrezzate alle loro esigenze, ovvero senza copertura chimico, farmaceutico, impone ai ragazzi il fatto di dover andar fuori. È necessario fare un salto di qualità e riuscire a capire, collettivamente, che alcune situazioni non possono essere analizzate con i parametri di etica spicciola».

Quello nei Drop in è un viaggio tra gli ultimi che ci insegna quanto ancora c’è da fare. Sarà importante e necessario cambiare alcuni paradigmi, attingere da risorse economiche e lasciare aperti i Drop in modo sicuro e continuo. Senza arrampicarsi sugli specchi.

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