Una (quasi) morte che non ci contagia

Una (quasi) morte che non ci contagia

di Erica Donzella
editor e scrittrice

È lecito. È umano preoccuparsi in questi giorni e nessuno può pensare anche solo lontanamente che quello che stiamo vivendo non sia uno scenario surreale. Bisogna fare i conti con la paura che quest’epidemia ci ha innestato nella ossa. Staremo a vedere, nutrendo la speranza di essere abbastanza intelligenti da non farci assalire da un panico smisurato.

Tra bollettini medici e grafici aggiornati ogni 24 ore, un’altra notizia però, non meno allarmante, è passata in secondo piano, o quasi. Quasi, perché fortunatamente qualcuno dei miei amici virtuali l’ha condivisa, allontanandosi per un attimo dal trend topic del “virus”. Il video dei migranti presi a bastonate su un barcone, minacciati dagli spari della Guardia Costiera greca che ho visto ieri ha fatto cacciato via per una buona mezz’ora la preoccupazione rispetto a chi non lava bene le mani in questo momento. È semplicemente aberrante e sì, mi ha preoccupato molto più del video tutorial della D’Urso su come sfregarsi i palmi accuratamente. Il problema è come sempre la distanza tra ciò che viviamo sulla nostra pelle e quello che ci sembra lontano. I due problemi non sono uno più grave dell’altro: li metto sullo stesso piano, solo mi fa ribrezzo il criterio che usiamo per distinguere il nostro grado di percezione rispetto alla morte o alla minaccia che deriva da questa. Se la probabilità di morire è riconosciuta da un ministero della salute, quindi da un ente pubblico a cui affido la mia sanità fisica e mentale, allora mi adopero affinché sia in grado di combatterla, adotto misure di sicurezza, mi informo e monitoro una situazione di pericolo che mi sembra sulla soglia della mia porta.

Se la probabilità di morire riguarda, invece, la narrazione di una vicenda di disumanità inaudita e avviene a chilometri dalla mia vita quotidiana, in aperto mare, penso soltanto che non è il primo video in grado di registrare dei crimini contro l’umanità, che quello della migrazione sia una tematica lontana da me, non sono io ad essere minacciata dalla probabilità di un naufragio, voluto (in questo caso) e auspicato dalla ferocia dell’essere umano. 

Mi chiedo: è questa la nostra evoluzione emotiva? Come riusciamo a scegliere quale minaccia di morte ci fa più paura, senza comprendere che potremmo anche noi, occidentali e iperinformati, iperconnessi e attaccati alle nostre esistenze programmate, ritrovarci a migrare proprio per il terrore di un contagio?

Dentro quale distopia abbiamo scelto di nutrire il panico? In quella che ci obbliga a restare a un metro di distanza dal prossimo o quella in cui scegliamo volutamente di rimanere a distanza di sicurezza dalla morte di innocenti che si perpetuano in mare e (spesso) per mano di chi dovrebbe garantire salvezza? Siamo astuti noi essere umani. Egoisticamente impauriti soltanto dalla nostra stessa fine. Dalla morte altrui non siamo contagiati, a meno che non ci sia il sospetto che possa coinvolgerci da vicino. Credo che l’unica possibilità di rimanere umani sia quella di riuscire a comprendere come la morte non abbia criteri di selezione: non esistono categorie di fine vita che siano più “notiziabili” rispetto ad altre.

Potremmo essere ancora in grado di guardare oltre il nostro naso e riuscire a indignarci (e magari agire, in qualunque modo ci sembri utile) per ciò che avviene nel nostro mare (e in quello di altre regioni del mondo), ad esempio. E non essere terrorizzati soltanto se qualcuno starnutisce dall’altro lato del marciapiede.

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