Vita oltre le sbarre. Liberaci dai nostri mali, l'inchiesta nelle carceri italiane di Katya Maugeri

Vita oltre le sbarre. Liberaci dai nostri mali, l'inchiesta nelle carceri italiane di Katya Maugeri

di Saro Faraci

I giornali non hanno al loro interno le pagine di cronaca grigia. C’è la cronaca nera, quella bianca, la rosa, la giudiziaria e la sportiva e così via, ma non c’è la cronaca del grigio, il colore che esprime le diverse prospettive di vista. Un colore che cambia significato a seconda di come lo guardiamo, proprio perché si presta ad essere un punto di sosta, di osservazione, di considerazione e valutazione del mondo circostante. Il grigio dona un momento particolare per prendere respiro oltre la frenesia della vita quotidiana.

Per questo motivo, il colore grigio lo si trova solo nelle inchieste, come quella sulle carceri italiane con cui Katya Maugeri, giornalista e direttrice del nostro giornale Sicilia Network, ha dato vita al suo libro-racconto Liberaci dai nostri mali pubblicato nel 2019 da Villaggio Maori Edizioni, vincitore del premio Etna Book come miglior opera prima, presentato ieri pomeriggio in occasione di una diretta Facebook presto disponibile su YouTube sul canale ufficiale della casa editrice, in cui, oltre all’autrice, hanno preso parte Vera Navarria e il sottoscritto.

Il grigio è il colore del sospeso, tra il bianco e il nero, tra il bene e il male, ma nessuno può vivere a lungo in una condizione di grigio, o di amarlo a lungo. Se da un lato questo colore ci insegna a gestire le emozioni, ad osservarle e a scegliere come esprimerle e dona quel momento sospeso di attesa, necessario per spegnere i condizionamenti ed aprire il cuore; dall’altro lato il grigio è incertezza, tristezza, malinconia, è il colore delle ceneri. E’ una cromia ricca, più volubile rispetto a tutti gli altri colori, compreso il nero da qui spesso originano i fatti tratteggiati in Liberaci dai nostri mali.

Bisogna prendersi dunque qualche ora per leggere tutto d’un fiato il libro racconto di Katya Maugeri dove, varcando il cancello delle case circondariali ed incontrando i detenuti, sono riportate sette storie di sette uomini che hanno commesso crimini e stanno scontando la loro pena. Questi uomini però dentro il carcere hanno provato, anche con l’ausilio di tanti programmi di rieducazione come quelli ex art.21, a ricostruire un percorso di umanizzazione, non sempre completo, assai travagliato e sicuramente imperfetto, ma pur sempre umano. La giustizia, ricorda l’autrice in una delle tante “ore d’aria”, ha diverse sfaccettature. Ce n’è perfino una dialogica e riparativa, rigenerativa e ristorativa, che si sforza di umanizzare la pena. Ma ha bisogno di grande maturità di tutti e dell’indispensabile funzione dei mediatori nel far incontrare rei, vittime, familiari e la società civile, superando i pregiudizi, ma rispettando pure il dolore di chi ha subito il crimine.

Limitandosi ad osservare e ad ascoltare, come dovrebbe fare sempre un buon giornalista, ma provando pure a decodificare le emozioni dei suoi interlocutori come deve far sapere chi scrive un libro, l’autrice ha provato a ripercorrere il cammino inverso di uomini dalle vite storte, i detenuti che, ossessionati fuori dall’amore il potere (il denaro, la droga, il possesso, la violenza), all’interno del carcere si sono lasciati sedurre lentamente dal potere dell’amore, gli affetti, l’amicizia, la famiglia. Amore che magari non hanno mai conosciuto prima, per via di una infanzia difficile, o che hanno perduto, sciupato e lacerato per via della loro condotta criminale e che adesso provano a riconquistare.

Ieri pomeriggio, nella presentazione di Liberaci dai nostri mali, il libro di Katya Maugeri abbiamo provato a rileggerlo così, senza entrare nel dettaglio delle sette storie e delle altrettante ore d’aria che, con profonde riflessioni sulle condizioni carcerarie in Italia, anticipano i contenuti di ogni racconto. Lo abbiamo riletto cercando di capire se, invertendo l’ordine dei fattori, cioè amore e potere, il risultato si modifica e sicuramente cambia. Lo abbiamo riletto, provando a decifrare se nelle storie raccontate, i protagonisti siano più affascinati dall’idea della libertà di, cioè la suprema facoltà umana di scegliere e la conseguente responsabilità delle proprie azioni, piuttosto che dal desiderio di libertà da, che è liberazione da qualcosa (il carcere), ma diventa pure paura dell’ignoto perché, oltre le sbarre, la società non ha mai un occhio di riguardo per gli ex detenuti. Lo abbiamo riletto, infine, guardando ai canoni della scrittura, ai codici del linguaggio utilizzati da Katya Maugeri.

E’ una scrittura generativa quella di Liberaci dai nostri mali che attraversa tutte le tre fasi tipiche della generatività: quella creativa, di ideazione delle storie-racconti; quella organizzativa, del prendersi cura, sia dei protagonisti delle storie che delle parole utilizzate per descriverne emozioni e sensazioni; infine la fase transitiva, del lasciar andare dove non ci sono conclusioni, perché ogni lettore è libero di trovarle da solo e a seconda delle proprie inclinazioni emotive, e dove non si conosce nemmeno la fine delle sette storie perché alcuni dei protagonisti non usciranno mai più dal carcere, altri invece si aggrappano alla speranza che, però, nel libro della Maugeri è sempre l’ultima a morire, non è la prima a nascere. E anche questa è una condanna.

Un’ultima notazione di colore. Ma non è colore grigio. Il termine “vita” è uno dei più utilizzati e viene riportato 55 volte nelle quasi cento pagine del libro-racconto. Sarà un caso? Nell’inchiesta di Katya Maugeri la scrittura diventa proiezione della vita ed aguzza i sensi. Per leggere con le orecchie e per sentire con gli occhi.

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