Salute mentale: "Ero l'uomo del faro, adesso un ex internato dell'Ospedale psichiatrico"

Salute mentale: "Ero l'uomo del faro, adesso un ex internato dell'Ospedale psichiatrico"

di Katya Maugeri

CATANIA – «Ero l’uomo del faro, tanti anni fa. Da solo ammiravo e godevo dell’odore e del suono delle onde. Mentre la città riposava, io avevo il mare tutto per me». Che strana cosa, il mare, è proprio la metafora della vita: la quiete, la tempesta, la deriva, i resti che raccogli e quello che perdi non puoi recuperarlo più. Finisce lì, in quell’abisso.

«Sono anche un ex internato dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Lo sono stato dal maggio 1996 sino al 2012. Ho commesso un reato. No, non lo scriva quale. Ma non ho ucciso nessuno, questo sì, questo lo deve scrivere. Non ho ucciso nessuno. Ero squilibrato, mi sentivo male. Troppo male. Sono uscito e rientrato più volte, per lo stesso reato. Ero un’altra persona, mi creda».

È Giuseppe. Un uomo che racconta con molta nostalgia di quel suo periodo felice, quello in cui il disturbo bipolare non aveva preso il sopravvento. Giorni vissuti all’interno di una bolla effimera, quella felicità precaria che ti porta a fare sciocchezze, un entusiasmo eccessivo, non produttivo. distruttivo. Quello che lascia spazio al buio, alla depressione. Alla solitudine.

«Quando toccava alla depressione era terribile: mi chiudevo in casa, non volevo vedere nessuno. Ed è un bene, sa? Chiudersi in casa – intendo – in quella fase, è meglio stare soli. Due facce della stessa medaglia, ormai ho imparato a gestirle, le riconosco. Non ne ho più paura. Noi malati mentali siamo così. Che possiamo farci? Ci dovete eliminare? No. Dobbiamo solo accettare questo modo strano di vivere la realtà».

Un umore che cambia e che altera il modo di affrontare la realtà. Come un torrente che se troppo secco prosciuga la vita, se troppo pieno travolge e distrugge tutto. I tentati suicidi, il desiderio di mettere fine a una agonia per molti senza scadenza.

«Era gestito fortunatamente da un bravissimo direttore, Nunziante Rosania, presente e molto umano. Ma il resto del personale ci trattava come carne da macello». Lo ripete spesso e con tono di voce alterato, infastidito, dice che non ricorda tutti i dettagli. Poi, poco dopo, desidera raccontarli «no, no, invece li ricordo e dobbiamo raccontarle queste cose, perché là fuori non sanno niente. Che ne sanno del letto di contenzione? Lei pensa che lo sanno cos’è?».

Io non lo interrompo e capisce che voglio saperlo da lui come si viveva “in punizione”, perché questo era il letto di contenzione. Una punizione. «Ti legavano in questo letto per punirti: se rifiutavi la terapia, se aggredivi gli operatori, se quando sedati farmacologicamente, le medicine non avevano effetto si ricorreva alla contenzione fisica: legati ai letti con un buco per la caduta degli escrementi. Quello era l’inferno. Ed io l’ho conosciuto. Quando la mia malattia toccava picchi esagerati, quando non ero in me».

Il suo racconto è un viaggio a ritroso con sbalzi temporali in cui racconta dei suoi attuali pomeriggi trascorsi nella piazza del paese, delle attenzioni degli amici, dello sconforto relativo alla gestione dei dipartimenti di salute mentale, carenti e con pochissimi fondi, a quei momenti in cui deve starsene in casa perché la malattia mentale prende il sopravvento. «Io lo so ormai, non posso contrastarla, devo solo accettarla».

E torna a quegli anni – troppi – in Opg «quando eravamo trattati in maniera disumana, non da tutti eh! Ma tantissimi operatori ci trattavano malissimo. Nessuna umanità. Ricordo di essere stato legato per giorni, passavano, mi guardavano urlare e andavano via. Mi sono risvegliato con le piaghe. Era disumano. Non stavo bene con la testa, dovevano capirlo, dovevano curarmi mica punirmi». Racconta della superficialità e dei modi bruti della polizia penitenziaria «Alcuni erano gentili, la maggior parte di loro usava violenza.  Prendevano a pedate gli internati, li bastonavano. Scene orribili, eravamo cose non uomini. Cose».

Poi sorride e continua «giocavamo a carte con gli altri internati. C’era molto rispetto: un inferno che cercavamo di abbellire con i nostri ricordi. Di quando la malattia mentale non era giunta a rovinarci tutti, di quando possedevamo il dono più prezioso: la libertà. I nostri ricordi erano belli, leggeri. Poi, non lo so se alcuni erano veri o meno, chi può dirlo? Ma ci faceva stare bene ricordare l’odore di casa, delle minestre, i natali in famiglia e le passeggiate. Momenti che grazie ai volontari e a don Pippo Insana abbiamo vissuto, ma la libertà è un’altra cosa. Quando le giornate erano quelle no – quando tornavano i malesseri intendo – il tempo non passava mai. Nel 2010, poi, un ictus mi ha devastato, mesi di coma e poi nuovamente in Opg. E fortunatamente ho rimosso alcuni attimi atroci, non tutti però».

Quando gli chiedo in quali momenti belli ama rifugiarsi, risponde che quel faro e l’odore del mare riescono a far dimenticare – sebbene per pochi istanti – quella bolla effimera di una realtà che col tempo ha imparato ad accettare. «Adesso sto meglio, sa? Vivo con mia madre, amo fare delle passeggiate in piazza. Quell’inferno te lo porti addosso, ma sono stato più forte. Là fuori il pregiudizio è la malattia più grave, perché ti allontana dalle persone, ti allontana dal cuore. In paese mi vogliono bene, si preoccupano per me e dei miei momenti no. Poi quando torno col sorriso mi abbracciano e allora penso che per fortuna c’è chi riesce a voler bene, anche ai “matti” a quelli che sono sopravvissuti all’inferno».

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