Zafferana, l'invasione della Cecoslovacchia e la granita dimenticata


 
 
 
Alfio Franco Vinci

Ho sempre pensato che gli ” amarcord ” fossero “cose da vecchi”ed infatti eccomi qui a scriverne uno. Sono passati 50 anni, eppure mi sembra ieri. Come ogni anno, pur vivendo a Varese, trascorrevo due mesi estivi in Sicilia, terra d’origine della mia famiglia e dove vivevano i miei nonni. Dal 1927 per sottrarsi alle insopportabili temperature di Catania, la famiglia si trasferiva in  collina, a Zafferana Etnea, “la perla dell’Etna” e vi soggiornava da giugno a ottobre; noi invece arrivavamo a luglio e ripartivamo per Varese a fine agosto.

Zafferana, nome arabo dovuto alla rara presenza del prezioso pistillo, era la più ricercata ed ambita località di villeggiatura di tutta la zona dell’Etna e, in una cornice di rara eleganza e traboccante benessere, ospitava continui eventi mondani che attiravano visitatori e personalità dello spettacolo, della letteratura dello sport e della scienza. Un vero e proprio “vippaio”, ma noi non sapevamo che si dicesse così. Era la mattina del 21 agosto 1968 e quell’anno vi sarebbero state tre novità; non sarei ripartito a fine agosto per la mia amata Varese e quindi non avrei rivisto, per chissà quanto tempo,gli amici cui ero legato dalla nascita,  primo fra tutti il mio”fratellino” Massimo Lodi, affermato giornalista e scrittore; l’evento clou della stagione, il Polifemo d’Argento, avrebbe visto fra i premiati Pippo Baudo, Lando Buzzanca, Leonardo Sciascia, Salvatore Quasimodo (alla memoria) ed il campione automobilistico Nino Vaccarella; come presentatore la Rai aveva concesso Nuccio Costa e, credo, come direttore d’orchestra il maestro Pippo Caruso, da poco scomparso.
I preparativi per la grande kermesse del 25 agosto erano entrati in una fase parossistica e noi eravamo combattuti dal dubbio amletico: abito blu o abito nero?
Davanti ad una granita con brioche, colazione del mattino cui, dopo 50 anni non mi sono ancora abituato, dibattevamo sul dress code del successivo  25 agosto, quando ci raggiunge trafelato il sottotenente di fanteria Nando, in licenza dal reparto di appartenenza, con la terza drammatica novità: “i Russi hanno invaso la Cecoslovacchia”.
Credo che per un attimo smisero di volare anche le mosche. Dopo alcuni minuti è la volta del guardiamarina “top gun”  Francesco,  fratello del tenente dei Carabinieri, Giorgio, che conferma.
E ancora il sottotenente Salvatore (detto Turi Sassa,  poi Intendente di finanza credo a Varese) terrorizzato perché ufficiale in  un reparto d’assalto dei carristi.
Non avemmo più occhi nemmeno per le belle ragazze, fra le quali quella che sarebbe poi diventata la donna della mia vita, la madre di mio figlio, mia moglie Melita, che, consapevoli che ce le mangiavamo con gli occhi, passeggiavano con susseguo all’ombra degli alberi che facevano da corona alla piazza dei bar, ritrovo dell’ high society e nostro bivacco abituale. Se non ci fossero stati 32 gradi già alle 10 del mattino ci sarebbero venuti i brividi e comunque sudammo freddo.
Eravamo infatti tutti più o meno in età di leva; alcuni già in corso, altri da lì a poco. Le notizie, c’era solo la Rai 1 e 2, si susseguivano e si ingigantivano come una valanga che scende a valle: tutti i militari in licenza richiamati ai reparti di appartenenza (vera); chi ha compiuto 18 anni si prepari per una imminente coscrizione anticipata (falsa). I Russi scendono attraverso l’Austria verso i sacri confini, ancora si diceva così ( falsa). Fatto sta che eravamo tutti, a torto o a ragione, preoccupati e spaventati. Le ragazze ci guardavano come se dovessimo congedarci da loro al grido di “morituri te salutant”, ed i loro occhi umidi  confessavano i loro sentimenti. In tutto questo sconvolgimento mi sono scordato della granita che si è irrimediabilmente sciolta, ma per la sera ho guadagnato una “tenerezza “in più.
Alfio Franco Vinci

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