Detenuti e droga, le loro storie: il coraggio di germogliare

Katya Maugeri

COSENZA – “Una noia che mi trasportò nell’indifferenza, nell’estraniarmi da me stesso e dalla società, un senso di malessere interiore quando t’accorgi che ciò che sono i momenti della vita, in realtà dipendono da qualcosa, ossia la droga”.

Si respira aria di autunno nel Centro solidarietà Il Delfino: foglie secche che abbandonano leggere i rami attraverso un volo soave che porta addosso il peso degli errori, di un passato che serve allontanare per lasciare spazio al nuovo.

“Mentivo a chiunque quando c’era da mentire e anche nella falsità ero capace di mentire, voglio dire che  anche stando male per ciò che sapevo facesse male, ne traevo conclusioni positive”, a raccontarmi la sua storia è un uomo di trentaquattro anni, alla sua prima esperienza comunitaria.

Tre mesi fa, dopo essere stato in cura psichiatrica per dieci anni, sceglie di intraprendere questo percorso terapeutico per allontanarsi definitivamente dal tunnel della droga. Il suo tono di voce è pacato, mi racconta gli aneddoti, le emozioni, distoglie lo sguardo per poi trafiggermi con gli occhi di chi sa quanta morte ha lasciato entrare nel suo corpo, nella mia mente. Nella sua vita.

“A 16 anni ho iniziato l’uso della marijuana, momenti che condividevo con i compagni di scuola e con amici, fuori. Da lì il passo alla cocaina è stato breve, sebbene non mi procurava così tanto “sballo” sniffarla, un abuso reale è stato con le MD, una sostanza psicoattiva appartenente alla classe delle metanfetamine, dagli spiccati effetti eccitanti che assumevo soprattutto durante le feste che frequentavo: i rave party durante i quali si ballava senza sosta. Queste sostanze mi facevano stare bene, momentaneamente. In quella bolla di illusione che mi ero creato.
Quando emergono problemi che riguardano la psiche, credo fortemente che il primo buon medico sei tu”, lo dice sorridendo sottolineando che il suo non è un rifiuto alla medicina, ma una analisi introspettiva. “Dopo anni e anni di medicinali, ho deciso di non prendere più nulla. Fu nel 2008 ho iniziato ad avere istinti suicidi. In quel periodo lavoravo in fabbrica, in una industria di imballaggi di plastica e durante una di quelle giornate sprofondai in una crisi psicofisica: piangevo e non uscivano lacrime. Insomma, piangevo dentro”. Quella crisi, poi, si è evoluta in una depressione.

Era un accumulo di malessere causato da ciò che mi stava intorno: l’ambiente familiare, per esempio. In quel periodo mio fratello stava divorziando, e il clima era devastante: in famiglia si arrabbiavano con me per i ritmi assurdi che tenevo. Tornavo tardissimo la notte e mi alzavo prestissimo per andare in fabbrica. E lì, quell’ambiente lavorativo che mi logorava. Avrei potuto pure denunciarli per mobbing, non ero gratificato nonostante avessi un buon stipendio e un ottimo contratto. Umanamente, psicologicamente stavo male. In questo scenario le uniche protagoniste erano loro: le droghe. Faccio prima a dire quale io non abbia mai usato. L’eroina, mai. Avevo istinti suicidi, ma non ho mai cercato di togliermi la vita.

Si facevano le cose tanto per farle con una costanza nel ripeterle, dell’amicizia in realtà ce n’era solo la convenienza e né tanto meno si può parlare d’amicizia se in mezzo si ci deve mettere per forza la sostanza. Avevo modo di giustificare l’uso delle droghe per ciò che potrebbe essere il loro carattere soggettivo e non ammettevo a me stesso che invece io stavo cambiando. Era cambiato il mio carattere, ero diventato impulsivo, irrequieto, nervoso, pronto ad attaccarmi con chiunque se ci fosse stato qualcosa che poteva non andarmi bene”.

Mi racconta che non ha mai spacciato, che faceva solo da tramite e che insieme alla dipendenza dalle droghe si era aggiunta quella al gioco d’azzardo. “Si entra in quelle sale piene di slot machine per vincere“. Per avere i soldi necessari e comprare la sostanza. È lei l’unico pensiero fisso, tutto dipende da lei.

Un vortice di nervosismo che ti assale, perché i soldi li perdi, li perdi tutti anche quelli che vinci, perché stai lì a giocarteli nuovamente. Una adrenalina che non si quieta, è una dipendenza impulsiva, una frenesia legata alla vittoria. “È come se ti ritrovassi ipnotizzato: la musichetta, un rullo che gira, i colori, le immagini”.

Si perde tutto, non solo il denaro: la dignità, l’affettività, il rispetto, la pace. Un benessere determinato dall’effetto della sostanza. Dopo, il nulla. L’oblio che ti cattura.

“Adesso, da tre mesi mi trovo in comunità”, racconta con orgoglio, “per mia scelta e sono felice di esserci. Al Delfino ci sono programmi flessibili che ti permettono di comprendere l’errore e ti stimolano davvero al cambiamento”.

L’esperienza comunitaria se vissuta con gli strumenti adeguati ti pone davanti a una scelta concreta: abbandonare per sempre – con impegno e fatica – un tunnel che ha logorato anima e corpo e affidarsi a una nuova realtà. Quella delle piccole cose, dei traguardi ottenuti pian piano, una via illuminata e vissuta con lucidità.

Gli chiedo cosa gli manca oggi, adesso che guarda al passato come un recinto dal quale uscire, lui mi risponde commosso che a mancargli sono i rapporti con gli amici di infanzia, e il rapporto con i suoi genitori. “Voglio recuperare tutto quello che ho lasciato andare, tutto quello che la sostanza ha allontano da me. Vorrei dare un senso a questa mia vita, nonostante le avversità, le angosce, le insicurezze.
Ha una luce molto bella che attraversa il suo viso, sarà la finestra aperta e il sole fuori che scalda, ma lui sembra orgoglioso e sicuro. Ferito, indolenzito, ma forte in quelle che sono le sue intenzioni. Lo trasmette con lo sguardo e non solo. Anche con la poesia, perché la poesia cura gli animi rotti.

Si intitola Rampollo, il significato del termine vuol dire anche il germogliare. “E ne voglio far mio questo intento, di voler venir fuori in questa vita in maniera matura e concreta”.

Rampollo

Pelle, ricordi di te.

Residui inganni, restano in me.

Un lieve fiato, risale fecondo di esperienza.

Vita, emozioni riflesse.

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