Dall’audiovisivo al graphic novel fino al reportage: le tante forme del  "giornalismo che verrà”

Dall’audiovisivo al graphic novel fino al reportage: le tante forme del  "giornalismo che verrà”

CATANIA – Sabato 19 giugno si è svolta la terza giornata di lavori del workshop “Il giornalismo che verrà”. Tre panel pubblici hanno approfondito in che modo il giornalismo riesce ad incontrare le più diverse forme di narrazione.

Raccontare il bene: audiovisivo e sociale. Nella mattinata la presenza di professionisti della comunicazione e della giustizia ha dato vita a una discussione sull’impegno sociale dell’audiovisivo. Ad animare la conferenza sono stati Roberto Di Bella (presidente Tribunale per i minorenni di Catania), Giovanni Parapini (direttore “Rai per il Sociale”) e Monica Zapelli (sceneggiatrice) introdotti e moderati da Giuseppe Di Fazio (presidente scientifico DSe) e Ornella Sgroi (giornalista “Buone Notizie” Corriere della Sera). «L’idea che lavorare per “Buone Notizie” faccia perdere il contatto con la realtà è diffusa – ha affermato quest’ultima – in verità però è solo un modo diverso di guardarla. Una buona notizia può consistere anche nel raccontare un disagio offrendo già una soluzione, incoraggiando la comunità su cui l’Italia si regge». È quanto è stato fatto con il film “Liberi di scegliere” prodotto dalla Rai, sceneggiato da Monica Zapelli. «Questa produzione – ha detto il dott. Di Bella, alla cui esperienza di vita il film è ispirato – capovolge il mito del boss mafioso, si propone di mostrare cosa accade davvero nelle famiglie malavitose, la sofferenza che si genera. Nelle periferie sociali i ragazzini vedono Nitto Santapaola come un modello, mentre bisogna far capire loro che un uomo in carcere che non può abbracciare i suoi figli e a cui è stata uccisa la moglie non è un mito». A sostenere la necessità di una narrazione diversa, che colga le sfumature della vita, anche la sceneggiatrice Zapelli: «Nei miei film, a partire da “I cento passi”, voglio trovare una linea di racconto che crei empatia, che non si limiti a dire ai cattivi che loro sono sbagliati, ma cerchi di educarli». Per raggiungere questo obiettivo è fondamentale l’appoggio del servizio pubblico della Rai: «Bisogna trattare i temi sociali mantenendo credibilità. La Rai ha il compito di educare: mettere film come “Liberi di scegliere” nelle sue piattaforme punta proprio a questo, a farlo vedere ai ragazzi invisibili che per vari motivi abbandonano la scuola» ha sostenuto Parapini. La dispersione scolastica, con il conseguente aumento della criminalità minorile, è infatti una piaga che affligge Catania, come hanno denunciato Di Fazio e Di Bella.

La graphic novel giornalistica. «La società di oggi va sempre di fretta, le persone non hanno tempo di leggere e preferiscono procedere per immagini: si pensi alle storie di Instagram. Perciò sostengo che il fumetto non morirà mai». Queste le parole di Lelio Bonaccorso, fumettista e illustratore ospite di una discussione sul graphic novel giornalistico introdotta da Marco Grasso (responsabile Area Mostre di Etna Comics) e moderata da Joshua Nicolosi, giornalista del “Sicilian Post”. Partendo dall’esperienza di “Salvezza”, graphic novel realizzato insieme con Marco Rizzo, Grasso ha detto: «Il graphic journalism è una forma di giornalismo attendibile, basato su testimonianze di prima mano. È scorretta l’idea che il fumetto sia solo una lettura adolescenziale». “Salvezza” infatti racconta la storia dei migranti salvati dalla nave sulla quale i due fumettisti hanno vissuto per qualche mese. «Tanto i soccorsi quanto i soccorritori – ha detto Bonaccorso – erano più disposti a parlare con me che mi limitavo a disegnare che con i giornalisti. In questo modo ho potuto realizzare una vera e propria inchiesta. Nell’evoluzione continua in cui viviamo e a cui dobbiamo adattarci solo il racconto può salvare il mondo» ha concluso l’artista messinese.

Le primavere arabe dieci anni dopo. Il pomeriggio è stato inaugurato da un panel che ripercorso le vicende delle primavere arabe di cui hanno discusso giornalisti esperti del settore: Fernando De Haro (direttore “La Tarde”, Cope), Maria Pia Farinella (giornalista Rai), Domenico Quirico (inviato “La Stampa”), Giuseppe Di Fazio (presidente scientifico DSe). Proprio quest’ultimo ha aperto la questione: «Il 17 dicembre 2011 un venditore ambulante nel cuore della Tunisia si è dato fuoco come segno di protesta contro un regime di vita insostenibile. Da lì sono nate le primavere arabe, le rivolte contro i regimi dittatoriali. A Catania – continua Di Fazio – qualche settimana dopo un ambulante ha fatto la stessa cosa, ma non ne è nata alcuna rivolta. Perché? E cosa è cambiato nel mondo arabo dopo 10 anni?». Eloquente la risposta data da Quirico: «In un Paese in cui la pandemia ci ha fatto scoprire che per noi la libertà è poter andare al ristorante e togliere la mascherina, che rivoluzione vogliamo? Al massimo la rivoluzione dei cuochi!». Laddove invece le rivoluzioni sono state fatte, si partiva da situazioni diverse. Grazie alla sua esperienza personale lo ha spiegato la Farinella: «Dal 1987 al 2010 sono andata ogni anno in Tunisia e ho notato che il malcontento aumentava fin quando la sensazione di soffocamento è diventata insostenibile. È allora che sono iniziati i primi moti di protesta: dal singolo ambulante è nata la rivolta dei gelsomini tunisina. Le storie minime fanno la storia grande». A dieci anni di distanza però questi moti non hanno dato i frutti sperati: «La rivoluzione araba è fallita perché è mancato un soggetto sociale pronto a sostituirsi al governo, non c’è stata coordinazione tra gli stati arabi post-coloniali» ha spiegato De Haro. L’unico modello vincente, con un’organizzazione interna, è lo jihadismo secondo Quirico: «La jihad, per quanto terrificante, sta andando avanti con il suo totalitarismo basato su una concezione religiosa di purezza dell’Islam, con il suo obiettivo di realizzare il paradiso in terra. Non è un concetto tanto diverso dal tribunale dell’Inquisizione medievale». Oggi l’Italia è uno Stato laico, ma i paesi arabi no: «Quando parliamo delle rivoluzioni arabe non possiamo farlo a prescindere dall’Islam, perché la religione ne è parte integrante. Questi moti non sono paragonabili al nostro ’68: è interessante girare il mondo e osservarlo con sguardo non occidentale» ha sottolineato De Haro. Proprio l’eurocentrismo è uno dei motivi per cui le primavere arabe non hanno avuto successo: «Noi Europei non abbiamo alcuna titolarità di dare lezione agli altri, ma lo facciamo: in Egitto al posto di Mubarak c’è al-Sisi, con cui continuiamo a fare affari, in Libia c’è il casting per un nuovo Gheddafi, in Siria è rimasto Assad. Come i Francesi in Niger, ci sentiamo autorizzati a intervenire in questi paesi orientali, che non sempre lo richiedono, solo per il nostro interesse personale» ha denunciato Quirico.

Progettare la fiducia: l’architettura dell’informazione. A chiudere la giornata un incontro con l’UX designer del gruppo GEDI Federico Badaloni su come riconquistare la fiducia dei lettori attraverso l’architettura dell’informazione. «La fiducia non si crea solo attraverso le parole che scriviamo ma anche nel modo in cui presentiamo le informazioni, non solo in termini di grafica». Una percentuale consistente di italiani, secondo il Reuters Institute, ormai evita intenzionalmente di informarsi: a loro avviso le notizie sono inaffidabili ma soprattutto li fanno sentire impotenti. «Dobbiamo restituire loro il controllo – ha notato Badaloni – rendere trasparente il metodo attraverso cui operiamo dando così ai lettori la possibilità di verificare se siamo affidabili». Si tratta quindi ripensare i contenuti web in un’ottica di empowerment per il lettore: «Ciò vuol dire, ad esempio, fornire loro le fonti usate per l’articoli, rendere esplicite le correzioni o gli aggiornamenti ad un articolo, rendere accessibile la biografia dell’autore». Questa la strada tracciata per recuperare il terreno perduto: «Si è giornalisti nel metodo, altrimenti si è semplici blogger: la buona architettura dell’informazione ha il compito di renderlo esplicito»

Prossimi appuntamenti. Il prossimo incontro in programma all’interno del workshop, aperto alla città, è la serata di gala “Conoscere, commuoversi, raccontare”, che comincerà domenica 20 giugno alle 17.45 al Teatro Verga di Catania. Sono previsti interventi musicali dell’Istituto Vincenzo Bellini, la proiezione del corto “Magic Show” di Andrea Traina con Nino Frassica e Lucia Sardo e ospiti come Giovanni Parapini, Domenico Quirico, Ornella Sgroi e l’attrice e regista Anna Aiello.

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