La Sicilia come identità


 
 
Concetto Ferrarotto

C’è un legame con il territorio che crea identità. Un popolo è il suo territorio ancor prima della sua storia. Il filosofo Cacciari scrive che “ethos”, l’etica, nel suo senso originario indicava il contenuto di valori, di cultura, espressi dal luogo in cui si vive. Se la Sicilia ha una sua diversità allora bisogna chiedersi quale sia il suo ethos, smarrito nell’ampiezza della globalizzazione e di una rappresentazione pubblica della sicilianità che da decenni si muove fra luoghi comuni.
Cominciamo col ricordare che siamo un triangolo in mezzo al mare, a volte troppo isola per mantenere continuità con la cultura occidentale, a volte troppo poco per poter fare storia a sé. Il nostro territorio ci chiama a fluttuare tra più mondi. Fra le varie città Catania è la più rappresentativa di questa dialettica ma vi rimane sospesa, senza riuscire definitivamente a coglierla come opportunità di crescita identitaria.
Perché l’identità può essere matura o infantile. E siccome siamo rimasti orfani dei grandi intellettuali del passato, quando vogliamo definirci scadiamo in una dimensione infantile che oscilla tra l’esaltazione incondizionata dell’essere siciliani e la sua più sconfortante denigrazione.
Che poi anche quell’esaltazione è una chiusura al mondo perché se siamo bellissimi non abbiamo bisogno di confrontarci con gli altri, come i bambini: è così confortante e comodo restare abbracciati al grembo materno, aggrappati alla terra madre. Ci vorrebbe una rilettura del “Don Giovanni in Sicilia” di Brancati che questo diceva, vai fuori e diventi improvvisamente adulto, ritorna in Sicilia e ridiventi di nuovo bambino. La questione mal posta è proprio quell’alternativa tra terra bellissima o terra desolata. La Sicilia è una “Waste Land” di depressione, per dirla con Eliot, o può avere uno spazio di futuro e di crescita ? E se accettiamo di riconoscere che non è la terra più bella del mondo ne tradiamo l’amore ?
Fuori dal provincialismo esiste la risposta, la risolutiva consapevolezza di un mondo dove ogni dimensione territoriale non è un assoluto e tuttavia contiene una propria specifica bellezza che la rende unica. In tale visione non si oscilla più tra i vertici opposti dell’ esaltazione e del disprezzo, si punta invece a interrogarsi sulla propria identità, per proteggerla, svilupparla e infine orientarla al dialogo con le altre identità. In fondo, nel mondo globalizzato a vincere è una soggettività che entri in rete con le altre. L’indistinto dell’economia capitalistica ha bisogno di identità da proporre, purché non siano stupido folklore. Il folklore è ripetitivo, l’identità è creativa.
Ora, si da il caso che la Sicilia pur non essendo il centro del mondo sia una regione di per sé fortemente caratterizzata dal suo territorio e dalla sua storia. Da qui possiamo ripartire e trovare il nostro spazio. Negli ultimi decenni abbiamo commesso molti errori, non ci siamo confrontati nel dialogo col mondo, lo abbiamo subito. Lo subiamo ancora oggi quando nel nostro vaneggiare di modernità e civiltà vorremmo ad esempio importare i modelli di sviluppo del Nord Europa nelle stesse forme e modi, senza tradurli in siciliano. Un’operazione che a tratti si vorrebbe realizzare convinti di essere “evoluti” ed invece è soltanto un altro segno del provincialismo destinato miseramente a fallire. E subiamo l “Aria del continente” pure nel senso contrario, quando ci sentiamo smarriti rispetto ai luoghi più ricchi e produttivi. Non ci rendiamo conto di quanto sia auto-limitante quel senso di smarrimento, quel timore a cogliere l’opportunità di una forte storia identitaria che non tutti posseggono.
Banalmente ma efficacemente lo hanno compreso soggetti come Camilleri col suo Montalbano o certi stilisti che nel mondo hanno imposto il loro prodotto vestendolo col carattere della sicilianità. L’essenza delle cose alla fine conquista una dimensione universale: Nuovo Cinema Paradiso è rimasto negli oscar e nella memoria collettiva perché rappresentava un’identità così essenziale da diventare sublime, quindi universale.
Serve a nulla restare adagiati sul conformismo della “Strabuttanissima Sicilia” con quel gusto amaro di auto-assoluzione o discutere ancora sulla “Linea della Palma”, questione che andava bene trent’anni fa quando fu posta da Sciascia e che oggi non trova nemmeno un senso geografico, con le palme scomparse, distrutte dal coleottero rosso. Una seria riflessione avrebbe dovuto interrogarsi sugli effetti di quella distruzione, su come reagire per ridisegnare il paesaggio e recuperare una quota della nostra identità.
Ci vorrebbe un Picasso della Sicilia, per destrutturare la nostra descrizione conservandone gli elementi essenziali. Ripensare quel dire comune di noi siciliani che avremmo sotto i piedi le risorse per ricominciare: il territorio, la storia millenaria di varie culture, la potente poetica degli scrittori. Ripensarlo per assumerne una più profonda consapevolezza di identità, renderlo attuale in uno scambio dialettico col resto del mondo. Identità e dialogo, specificità geografica e culturale, e così percorrere un progetto di rinascita anche economica. Chissà, quel Picasso forse vive già nascosto dentro molti di noi.
Per tirarlo fuori l’importante è sentirsi finalmente adulti e non temere il confronto.

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