Detenuti e droga, le loro storie: E poi, all'improvviso la vita

Detenuti e droga, le loro storie: E poi, all'improvviso la vita

 

di Katya Maugeri

COSENZA – “Vedevo i miei amici far soldi vendendo eroina. Così a quindici anni ho iniziato a spacciarla e a farne uso: da quel momento tutto è cambiato”.

La sua è una storia che andrebbe raccontata sottovoce, con delicatezza. Come quando cerchi di pulire una ferita a un bambino e temi di fargli del male. In punta di piedi racconta gli eventi che lo hanno portato oggi ad essere un detenuto, tossicodipendente che segue il percorso riabilitativo al Centro Delfino di Cosenza. Sono storie dalle sfumature impercettibili, come le loro personalità: diverse, eccentriche, introverse, insicure, coraggiose, ma tutte legate dal rapporto morboso con la sostanza. Lei che ha devastato la loro mente, alterandone la realtà, manipolando le priorità, l’innocenza, la loro anima. Per sempre.

“Mamma e papà si sono lasciati quando avevo tre anni, io e i miei fratelli siamo rimasti con mia madre, con tantissime difficoltà da affrontare perché ad aiutarci non c’era proprio nessuno. Con mio padre, in realtà, non abbiamo mai avuto un bel rapporto né tantomeno lo abbiamo coltivato dopo la loro separazione. Veniva a prenderci una volta a settimana, perché il giudice aveva stabilito così. Gli anni passavano, le avversità aumentavano, ma siamo cresciuti. Sono il più piccolo dei miei fratelli. Uno si è sposato, l’altro invece ha avuto una serie di provvedimenti legali e attualmente porta il braccialetto elettronico”.

Ci sono strade che inevitabilmente sembrano non possedere alcun bivio, tanto da vedere come uno percorso quello che – a lungo andare – si rivelerà la via verso quel tunnel chiamato droga, dipendenza.

“Ho iniziato a tredici anni a fumare marijuana – continua il suo racconto -, con la mia compagnia di amici ci riunivamo di pomeriggio in un bar e dopo la partita a calcio balilla  si finiva sempre insieme a fumare. Ero piccolo. Non era certo quello che un ragazzino della mia età avrebbe dovuto vivere. Il fascino dei soldi facili mi conquistò, quindi vedendo i miei amici spacciare eroina, scelgo di farlo anche io. E da quel momento la mia vita non è più la stessa. E nemmeno io. Un declino, un vortice, un continuo sprofondare verso il nulla. Dopo un anno mi hanno arrestato e portato in un centro di accoglienza per minori a Reggio: cinque mesi di misura cautelare e otto di gruppo appartamento. Durante questo periodo sono riuscito a prendermi la licenza media, a fare del volontariato e ho riabilitato la mia fedina penale. Avevo buone intenzioni: cambiare prospettiva e ritornare a vivere. Tornato a Cosenza sembrava andare tutto per il verso giusto, ho iniziato a lavorare, ma dopo otto mesi nuovamente il buio. È bastato incontrare una mia vecchia amica per rivedere riapparire la sostanza nella mia vita. Così, a diciotto anni provo la cocaina. Ed è subito schiavitù, terribile.
Ho vissuto tre anni di eccessi tra sostanza e rapine, avrei fatto di tutto per la cocaina. Mi svegliavo e pensavo solo a lei.
A due settimane dal mio compleanno, alla vigilia dell’Epifania un blitz della Polizia. Mi ritrovo casa piena di Polizia e Carabinieri, erano venuti ad arrestare me e mio fratello per i furti che avevamo commesso. Il risultato? Un mese di custodia cautelare e sei mesi di arresti domiciliari. 
Avevo il permesso di andare al SerT per assumere il metadone, quindi sono riuscito – durante quel periodo – a non fare uso della sostanza, ma scontata la pena, dopo un paio di giorni sono ricaduto nel tunnel”.

Sembra quasi di sostare dinanzi l’uscita, credi di esserci quasi, di avere gli strumenti adatti per combatterla quella dipendenza. E invece sei al centro di quell’abisso, era solo una illusione.

“E dopo soli due mesi mi hanno arrestato nuovamente, questa volta sono stato portato in carcere e quel periodo di permanenza è stato strano. Non mi rendevo conto di quello che stava succedendo perché la sostanza mi aveva totalmente annebbiato la mente, i pensieri. Non capivo la gravità delle cose che avevo fatto. Successivamente, agli arresti domiciliari  avevo anche questa volta il permesso di andare a prendere il metadone ma non sono riuscito a ad abbandonarla, la sostanza. Ne ero schiavo, morbosamente dipendente. Lei stava vincendo. E durante quell’agosto fino a settembre ho fatto una lunga serie di evasioni. Periodo nel quale sono stato accusato di un reato che non ho commesso – c’è in atto un processo infatti – è stata fatta una revoca e sono finito di nuovo in carcere. Dopo due mesi ho chiesto di poter entrare in comunità, il 20 marzo, il mio ingresso al Delfino”.

Lo dice con onestà, che la sua richiesta – inizialmente – era dettata da una stanchezza di fondo, non voleva restare in carcere, così la comunità sembrava essere la soluzione migliore.

“Ma arrivato in comunità mi sono reso conto di quanto lavoro potessi fare su me stesso, quanto potesse essere importante questa esperienza comunitaria. Era arrivato il momento della svolta. Di rinascere. Quando facevo uso di eroina mi isolavo, tendevo a stare da solo, la cocaina – invece – mi faceva fare solo guai. Tornavo a casa solo per dormire un paio di ore, avevo pensieri negativi, ansie, allucinazioni, mi ha fatto allontanare da tutto. Non avevo più amici della mia età, solo conoscenze più grandi. Avevo perso la spensieratezza, l’allegria e la gioia dei miei anni migliori. Oggi, fisicamente sento di stare bene, ho terminato la terapia farmacologica. Dopo tre anni sono pulito. Psicologicamente, giorno per giorno sento che mi sto rafforzando, grazie agli operatori forse questa volta è quella buona”.

Lo spaccio, l’abuso, la dipendenza. Un iter che sembra tracciare la ricerca dei giovani della propria identità, come se all’interno di questo percorso venissero a conoscenza del segreto dell’immortalità, del potere. E invece ruotano intorno a se stessi come dei leoni in gabbia, affranti e sconfitti da polvere bianca che si disperde nell’aria e che ride compiaciuta. Giovani disinformati, in cerca di punti di riferimento, o con il solo desiderio di sfuggire da una realtà alla quale non si sentono di appartenere. Convinti che la forza per cambiare il mondo, ribellarsi alle regole, far valere la propria opinione sia all’interno di una “bustina”.

Il suo tono cambia, arrossisce. “Non so cosa direi ai giovani che si avvicinano alla sostanza, però se potessi incontrare “me “di tanti anni fa gli direi di parlare di più con le persone che gli sono vicine, lo aiuterei a fidarsi di più, gli direi di non cercare una soluzione nelle sostanze, loro non sono la soluzione e non portano nulla di buono”.
Sorride. “Adesso invece sto bene, sono vivo. Ora vedo e scopro la vita reale, conosco me stesso e sto iniziando a progettare la mia vita. Non so immaginare il mio futuro, ho solo ventidue anni, so solo che non voglio più fare la vita che ho fatto fino ad oggi”.

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