Il giorno che imparai a nuotare

| Salvo Reitano |

Non lo so perché: forse sarà questo caldo improvviso e le spire dell’afa che non dà tregua o forse è tutto il contesto ambientale che non manifesta nulla di più di un cielo giallo di sabbia africana. Ma mi è venuta improvvisa una voglia di mare e anche la lunga, stupefatta, contemplazione del muoversi verde e turchino che respira gonfiandosi a piena acqua, per dilagare chissà dove. Un attimo dopo si  arriccia di spume, frana e sciaborda per lucentezze di gocce. Non ho contatto con il mare da diversi mesi e vorrei correrlo sul molle delle rive, dove l’orma dei piedi s’imprime e ricolma, appare e scompare.
Quell’immensità d’acqua contiene e incornicia i miei giorni fanciulli. Ero un bambino con il costume rosso e blu e forse per questo, qualche anno dopo, avrei preso come squadra del cuore il Cagliari di Gigi Riva che aveva le maglie di quei colori. Il costume rosso e blu e il cappellino bianco con l’ancora dei marinai. I giochi sul bagnasciuga a rincorrere il rompersi delle onde. L’acqua negli orecchi e quel rimbombo sordo tra il timpano e le trombe di eustachio. Per tirarla fuori bastava porre un ciottolo di pietra pomice sul padiglione e poi batterlo forte. Rintronava l’udito a martello e, improvvisa, l’acqua sgorgava in un rivolo di tepore, il ciottolo si bagnava, il rimbombo svaniva e l’orecchio si liberava.
D’estate, con i miei, passavamo lunghi periodi nella casa di campagna a San Leonardo. Intorno, a distesa, decine di ettari di agrumeto delimitato a est da un’area demaniale. Appena più in là fra la spiaggia di pochi ombrelloni il verdeggiare del boschetto dopo i ciuffi delle canne.
La sabbia era calda di luce e di sole e spesso si poteva ammirare il passaggio di una vela bianca nell’arco immenso dell’orizzonte. Il piccolo vascello vibrava nel ripetersi della brezza, talora si inclinava e noi da riva salutavamo a braccia levate, felici dell’apparizione. Sempre sognanti che un giorno anche noi avremmo navigato quel mare aperto e sconosciuto. Qualche volta, quando era più a ridosso la spiaggia, dalla barca rispondevano al saluto figurine blu cobalto in controluce al bagliore bianco del sole, i gabbiani intorno di scorta.
Un mattino, che forse era luglio, mio padre mi insegnò a nuotare. Ricordo ancora il suo allegro ridere giovane. Papà era forte e sciolto nei movimenti marini. Aveva servito la Patria indossando una divisa bianca con l’ancora e i fregi d’oro e mi piaceva sentire i suoi muscoli che aveva evidenti e armonici. Avvertivo quel profondo piacere della sicurezza, la garanzia affettuosa della sua presenza davanti al trasalire continuo e schiumoso del mare.
Io mi stendevo in acqua pancia in giù mentre lui mi reggeva per la vita con l’arco rassicurante del braccio e la sua voce mi rinviene col suono antico di quel rimescolarsi d’onde: “Va bene così Salvuccio, fatti leggero, ora ti lascio piano piano”. Il ventaglio delle mie piccole braccia si aprirono per la prima volta nel mare e le gambette, quasi in sintonia, a ripetere l’identico movimento. Il prodigio del galleggiare e muoversi nell’acqua mentre un giuoco di spruzzi si avventa sulla bocca e impaurisce. E lui a incoraggiarmi: “Non avere paura puoi farcela, vedi che ce la fai”. Riguadagno la riva dove la sabbia è più calda e punto dritto all’ombrellone dove mia madre, con i capelli raccolti, sta leggendo un libro.
“Ho nuotato, grido con tutta la voce che riesco a tirar fuori facendo vibrare le corde vocali, lo potrò sempre rifare”. Il sole picchia forte ma all’improvviso lo sento complice e affabile. Gli anni e le estati si ripeteranno. Che fosse quella la felicità? Corro verso il mare, ritrovo il sole e sento sul viso il sorriso festoso di mio padre il giorno che mi insegnò a nuotare.

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